DIGA MOSUL, SI APRE IL CANTIERE ITALIANO
A 50 CHILOMETRI DALLA CAPITALE DEL CALIFFATO
I lavori per il cantiere più difficile della storia sono cominciati. Sono arrivati gli ingegneri che studiano l’impianto, i carotaggi per analizzare le condizioni del cemento, le ruspe che spianano l’area per ospitare i macchinari.
Tutto sotto lo sguardo vigile di alcuni incursori in abiti borghesi, senza armi visibili. Ma questa è zona di guerra. E l’Italia si è impegnata a realizzare un’impresa senza precedenti: completare un restauro sulla prima linea di una guerra. Un appalto affidato alla Trevi di Cesena, per un valore di 273 milioni di euro, che di fatto è un affare di Stato ad alto rischio.
La ristrutturazione della diga di Mosul è un intervento di ingegneria ma anche un’operazione militare.
Molti, soprattutto a Washington, temono che lo Stato islamico possa trasformare in una bomba liquida il colossale invaso alto 113 metri e lungo piu’ di tre chilometri e mezzo, capace di devastare la piana dove vivono oltre mezzo milione di persone, arrivando fino a Mosul col suo milione di abitanti: la capitale del Califfato dista meno di cinquanta chilometri.
Se l’argine venisse distrutto, si rovescerebbero undici milioni di metri cubi d’acqua, con una replica del Diluvio che si è abbattuto su queste terre ai tempi dei Sumeri.
In realtà pochi credono che il Califfato abbia la capacità e la volontà di abbattere l’impianto.
Distruggere una diga è molto difficile, come hanno dimostrato i raid inglesi durante la Germania nel secondo conflitto mondiale: dopo numerosi fallimenti, la Royal Air Force fu obbligata a inventare bombe giganti estremamente particolari.
E oggi a Mosul servirebbero tonnellate di esplosivo, piazzate in posizioni specifiche con detonazioni sincronizzate. Con il rischio poi di travolgere la stessa capitale dello Stato islamico.
La struttura è comunque pericolosa. Alcune delle paratie che regolano il deflusso dell’acqua sono state compromesse da dissesti geologici e danni ai meccanismi.
E questo in situazioni di grandi piogge — come accaduto un mese fa — può creare difficoltà nella gestione del bacino: per fronteggiarlo i tecnici hanno dovuto far partire le turbine dell’impianto idroelettrico, regalando energia ai territori del Califfato.
Oggi infatti il personale iracheno spera che i tecnici italiani forniscano anche apparecchiature avanzate e l’addestramento per usarle.
E allo stesso tempo la diga è fondamentale per la rinascita economica della regione, una volta sconfitto o contenuto il potere dell’Is, potendo fornire corrente e irrigazione. Un elemento noto anche ai miliziani con la bandiera nera, che due anni fa hanno occupato l’infrastruttura ma sono stati scacciati dopo due settimane di combattimenti. E che adesso è prevedibile si opporranno alla ristrutturazione.
Per impedirlo, il governo italiano schiererà nelle prossime settimane tra i 400 e i 500 soldati per la protezione del cantiere.
Dovranno difendere la diga, integrando le postazioni curde e quelle dell’esercito di Bagdad: una situazione molto delicata del punto di vista militare, perchè l’impianto si trova proprio sulla cerniera tra le due armate, assolutamente non coordinate l’una con l’altra.
Per questo si ipotizza la costruzione di alcuni fortini, simili a quelli realizzati in Afghanistan nella zona di Bala Murghab, con mortai pesanti a lungo raggio per la copertura delle zone circostanti.
E di avere colonne corazzate che possano pattugliare il territorio, con autoblindo e “bisonti” apripista a prova di bomba.
Ci sarà inoltre una pista per gli elicotteri, dove potranno atterrare i quattro NH90 da trasporto appena arrivati in Kurdistan e soprattutto le quattro “cannoniere volanti” Mangusta, che dovranno custodire dal cielo la zona dei lavori.
L’incognita maggiore sarà la protezione dei convogli che riforniranno il cantiere di mezzi e soprattutto cemento, i materiali indispensabili per i restauri.
La città più vicina è Erbil, collegata con una strada presidiata da posizioni curde distanti una decina di chilometri l’una dall’altra: il rischio di imboscate dell’Is è altissimo.
Finora è stata tentata una sola operazione simile, estremamente più complessa: la ristrutturazione della diga di Kajaki, nel cuore delle terre afghane popolate dai talebani.
Nel 2007 gli inglesi organizzarono una gigantesca missione militare per trasportare un nuovo generatore — pesante 220 tonnellate — fino all’impianto: furono organizzate due spedizioni parallele, che si aprirono la strada combattendo per dodici giorni. Una missione conclusa con il successo ma sostanzialmente inutile: non è mai arrivato il cemento necessario a ripristinare i macchinari perchè il trasferimento di circa mille tonnellate comportava troppe insidie.
La situazione logistica della struttura di Mosul è meno grave, anche se il Califfato farà di tutto per tentare l’assalto alla base italiana, destinata a diventare il più grande accampamento di truppe occidentali dell’intero Iraq.
L’operazione Diga rappresenta anche un nuovo approccio alle missioni militari italiane, in cui il “sistema paese” cerca di finalizzare le spedizioni non solo alle ragioni umanitarie o ai calcoli di politica estera, ma anche a un ritorno economico diretto.
Negli ultimi venti anni l’impegno dei nostri soldati non si è mai tradotto in appalti o commesse, anche quando — come in Kosovo o in Libano — c’era la possibilità di “far pesare” la presenza delle truppe sul tavolo delle trattative.
E’ un approccio poco etico? Gli altri paesi occidentali lo fanno, in modo spesso spregiudicato e non esitando a rifilare colpi bassi contro le nostre aziende, come è accaduto per esempio nelle forniture alle forze armate afghane o a quelle libanesi.
E sarebbe opportuno che la questione venisse discussa dal Parlamento, sempre poco attento nel pesare l’impiego dei nostri soldati ma rapido nel celebrarne i successi o nel partecipare al lutto per i caduti in missione.
(da “La Repubblica”)
Leave a Reply