E LE CHIAMANO “PRIVATIZZAZIONIâ€
IN REALTA’ SI RITORNA AL VECCHIO SISTEMA DI AZIENDE A PARTECIPAZIONE STATALE
L’annuncio di voler quotare Poste Spa in Piazza Affari è caduto in un giorno nero per le Borse, ma non per questo si tratta di una cattiva notizia.
Al contrario, dopo tante chiacchiere, qualcosa torna a muoversi sul fronte della valorizzazione delle aziende pubbliche.
I venti che hanno scosso ieri i listini azionari un po’ dappertutto nel mondo hanno origini lontane da casa nostra: nascono da timori sulla tenuta dell’economia cinese e su una svolta restrittiva della politica monetaria americana.
E il fatto che lo Stato italiano voglia riprendere il cammino di quelle che con qualche eccesso lessicale sono chiamate privatizzazioni potrebbe semmai attenuare i contraccolpi sulla Borsa italiana dei nuovi chiari di luna sui mercati internazionali.
Ci vorrà ancora tempo prima che l’offerta di azioni della Poste Spa si realizzi concretamente sul mercato e può anche darsi che la cessione del 40 per cento del capitale dell’azienda non si concluda con l’incasso sperato oggi nell’ordine dei sette/otto miliardi.
Nessuno al momento è in grado di prevedere quale sarà il mood prevalente sui listini quando dall’annuncio si passerà al fatto.
A Londra da mesi si sta ancora ferocemente polemizzando sull’analoga operazione condotta dal governo Cameron con Royal Mail.
Ma nella ben più difficile condizione in cui si trova la finanza pubblica italiana sarebbe perdita di tempo e di denaro sottilizzare su presunte svendite di patrimonio statale.
Anzi, la maggior critica che sembra giusto avanzare riguarda piuttosto il ritardo con il quale alla fine si è deciso di procedere.
Basti pensare a quanto accaduto le scorse settimane con l’incresciosa decisione di usare proprio la Poste Spa per offrire una stampella comunque insufficiente a un malato cronico se non quasi terminale come Alitalia.
Diciamolo con franchezza: se la quotazione in Borsa delle Poste fosse stata fatta in precedenza, un simile ukase da parte dello Stato sarebbe risultato con ogni probabilità impraticabile. O, quanto meno, si deve sperare che così sarebbe stato.
È il caso di sottolineare questo punto perchè, come si accennava all’inizio, quella annunciata dal governo è una privatizzazione per modo di dire.
Come pure l’altra che si annuncia per l’Enav. «In entrambi i casi si tratta – è stato dichiarato in forma ufficiale – di cessione di quote non di controllo».
Del resto in analogia con quanto deciso a suo tempo per i giganti energetici dell’Enel e dell’Eni. Scelte che poggiano su solidissimi argomenti dati il peso e l’importanza strategici di aziende che operano in mercati vitali per l’economia e la sovranità stessa del paese.
Ma proprio per questo un’esigenza di chiarezza concettuale impone che si chiamino le cose con il loro nome: con la quotazione di Poste Spa, come già appunto con Enel ed Eni, non si dà luogo a privatizzazioni ma si resta o si ritorna a un sistema articolato di aziende a partecipazione statale.
Un simile chiarimento non nasce da un sofisma nozionistico.
Ma mette solide radici nella non poi così lontana esperienza delle partecipazioni statali domestiche che hanno fatto vivere al paese una delle sue peggiori stagioni istituzionali piegando gli interessi dello Stato al servizio di appetiti politici di partito o addirittura di fazione.
Fino all’assurdo di creare uno specifico ministero il cui compito era soltanto quello di fare da sensale fra boiardi e bande di potere.
Ecco, si vorrebbe avere la certezza che un simile passato non rientri in gioco da qualche finestra secondaria.
I primi rumors già in circolazione sui movimenti politici per le nuove nomine ai vertici delle attuali partecipazioni statali non inducono all’ottimismo.
Bene, quindi, che Poste Spa vada in Borsa, ma occorrerà fare attenzione che l’uso improprio del termine “privatizzazione” non diventi un comodo riparo dietro cui nascondere gli sporchi commerci pubblici del passato.
Massimo Riva
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