E’ MORTO PROVENZANO, IL BOSS DEI BOSS ERA MALATO DA TEMPO
LO “SCRITTORE” CHE INFILTRAVA LA MAFIA NELLO STATO
In principio era per tutti “u tratturi”, il trattore, capace di arare nemici come fossero distese a grano ai piedi della Busambra, la rocca di Corleone che inghiottiva gli scomparsi.
Poi, nel tempo, pentito dopo pentito, della sua capacità di sparare, della sua crudeltà in azione, nessuno sembrò più ricordare molto.
Allora divenne il “ragioniere”, lo stratega sottile che teorizzava la “sommersione” dell’organizzazione.
Il manager che disciplinava l’accesso delle imprese alle opere pubbliche, il contabile che teneva a mente le entrate per la “messa a posto”, il pizzo, del grande commercio, gli iper e i super mercati.
Per se stesso, per i suoi investimenti, per i suoi interessi, ha avuto l’occhio lungo sulla sanità .
Cominciò già a metà degli anni Settanta con le forniture ospedaliere. Per trovarsi in mano le chiavi, attraverso uno stuolo di teste di legno, capeggiate dal nipote, di un poker di società che avevano sede tutte nello steso stabile della Palermo del boom edilizio.
A metà degli anni Ottanta quel sistema di potere scandagliato da un rapporto dei carabinieri, firmato dall’allora capitano Angiolo Pellegrini, era già molto più che una radiografia di una holding solida che aveva ben piantato i piedi nella Palermo della spesa pubblica e delle professioni.
Ma, nel mito di Riina, che lasciava in ombra i suoi gregari, nessuno volle preoccuparsi molto di quelle aziende che avrebbero portato a svelare una rete di relazioni imbarazzanti per la città silente.
Accadde soltanto dopo più di vent’anni, quando si scoprì che la più importante struttura per la radioterapia oncologica era di un suo protetto, lui dice vessato. L’ingegnere Michele Aiello era l’imprenditore che a suon di investimenti massicci, varianti di destinazione d’uso lampo e una schiera di amici nelle forze dell’ordine aveva impiantato un sistema formidabile per decidere lui il prezzo delle prestazioni in convenzione pagate dall’Asl.
Totò Cuffaro il presidente della Regione aveva messo il timbro alla irresistibile scalata del primo contribuente di Sicilia. Dietro il quale c’era proprio il “ragioniere” Provenzano.
Per farlo operare a Marsiglia si era mobilitato il fior fiore degli uomini d’onore. In una catena di solidarietà che, sospetta la famiglia, ha portato ad una messinscena per l’omicidio dell’urologo Attilio Manca
Di Cosa nostra, regnando formalmente il capo designato, Totò Riina, non è mai stato il numero uno. L’eterno secondo, il generale prudente, pronto alla guerra, a condividerne gli scopi coltivando in segreto l’arte della mediazione.
Per questo nel cuore di molti uomini d’onore era lui il modello al quale fare riferimento: poco sangue, molti affari. Perchè nel silenzio delle armi lo Stato si distrae e i picciotti ingrassano al sicuro.
Il più longevo latitante di Cosa nostra, un fantasma inafferrabile per 43 anni. Il manager rozzo e incolto, che infarciva la prosa dei suoi “pizzini” di immancabili citazioni bibliche e oblique benedizioni, ricomparve la mattina dell’11 aprile del 2006 a Montagna dei Cavalli, una manciata di chilometri da Corleone.
Stava vicino alla sua famiglia, la moglie Saveria Benedetta Palazzolo, la camicia di Cinisi che non ha mai veramente sposato e i figli, Angelo e Francesco Paolo , rimasti al riparo da processi e condanne.
La delusione fu grande per chi immaginava che un padrino del suo calibro vivesse in chissà quale reggia.
Prima una manina, colta al volo da un binocolo della squadra dei cacciatori di Renato Cortese, poi a figura intera, Provenzano si mostrò per quel che era: un anziano dallo sguardo mobilissimo, di studi modesti e vita frugale, capace però di amministrare un impero.
Sibilò qualcosa tipo: non vi rendete conto, alludendo alla sua fine e a quel che ne sarebbe conseguito. Un’intercettazione aveva messo sulla pista giusta: “Iddu, ca è?”, “lui qui è?”, aveva chiesto sorpreso il fratello ai familiari. Con la certezza che si trovasse a Corleone, passo dopo passo fu ricostruita la catena dei pacchi di sussistenza che arrivavano dalla casa della moglie al rifugio del latitante.
Attento a non minare il ruolo formale di Riina, dopo averne condiviso la scelta stragista del 1992, Provenzano si è fatto interprete della linea moderata, del ritorno all’antico, di una Cosa nostra che non prova a far la guerra allo Stato ma tratta e media, incassando impunità e dispensando pace sociale apparente. Ecco perchè c’era ancora lui alla sbarra nel processo di Palermo per la trattativa Stato-mafia.
Per due volte sfuggì alla cattura quando un confidente, Luigi Ilardo, aveva spifferato di un summit nelle campagne di Mezzojuso. Il blitz non ci fu e Provenzano rimase latitante per altri 11 anni
Quella sua abitudine di scrivere – “lo scrittore”, disprezzando la scelta di lasciare una così gran quantità di tracce, lo chiamava Riina – quei fogli scritti a macchina e ripiegati, il codice escogitato per camuffare i nomi dei complici, è ancora oggi un archivio straordinario per comprendere i percorsi dei suoi ordini e la rete vasta dei suoi interessi.
Il suo testamento criminale, ancora in parte da decifrare per aprire lo scrigno dei segreti che ha portato con sè.
(da “La Repubblica”)
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