FINANZIAMENTI, LOBBY, TANGENTI: E’ CORRUZIONE: LA BUGIA DEI SOLDI LECITI
C’E’ CHI HA IL CORAGGIO DI PARLARE DI NORMALI DONAZIONI
Quella di Giovanni Toti non può essere corruzione: i soldi al suo comitato erano “tutti dichiarati”. O forse è corruzione, ma non importa: il presidente arrestato “ha salvato la Regione in declino”. Quindi, per evitare altre fastidiose inchieste, bisogna “ripristinare il finanziamento pubblico”. Anzi no: “Aprire alle lobby private”.
Il terremoto giudiziario in Liguria ha dato il via a un carnevale mediatico di pareri, editoriali e arringhe tutti volti a dimostrare la stessa tesi: anche se i fatti, cioè i 74 mila euro ricevuti dall’imprenditore Aldo Spinelli, sono indiscutibili, le accuse rivolte a Toti non stanno in piedi, perché la corruzione non viaggia tramite bonifico. “È ben strano che, se qualcuno decide di farsi corrompere, lo faccia ricorrendo a modalità di finanziamento formalmente corrette e trasparenti”, insegna Daniele Capezzone su Libero.
Italo Bocchino, direttore del Secolo d’Italia ospite a Otto e mezzo su La7, afferma che quelli al comitato Toti erano “finanziamenti perfettamente leciti, tutti dichiarati, previsti nei bilanci e documentati nelle spese”. E qui c’è il primo equivoco, di tipo concettuale: per i pm e per il gip di Genova non si trattava di finanziamenti, ma di tangenti mascherate in cambio di provvedimenti favorevoli.
A spiegarlo nel salotto di Lilli Gruber è l’ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati: sul piano teorico, ricorda, “i contributi elettorali sono erogazioni liberali. Nessuno è così ingenuo da pensare di non averne un qualche vantaggio politico generale, ma diverso è il caso in cui non si tratti di liberalità, bensì del corrispettivo di una serie di iniziative specifiche. Questa è la contestazione”. Dall’ordinanza di applicazione delle misure cautelari, infatti, emerge in modo piuttosto chiaro come i bonifici di Spinelli arrivassero a mo’ di ricompensa subito dopo che quest’ultimo otteneva lo sblocco delle pratiche a cui era interessato.
Tra le decine di intercettazioni citiamo la più emblematica: “Guarda che abbiamo risolto il problema a tuo figlio sul piano casa di Celle… ora facciamo la pratica, si può costruire… quando mi inviti in barca? Così parliamo un po’ che ora ci sono le elezioni, c’abbiam bisogno di una mano…”, diceva il politico al magnate dello shipping.
Ecco allora che il romanzo dei negazionisti si arricchisce di un nuovo mantra: sì, i soldi c’erano, forse erano dati in cambio di favori, ma quei favori erano tutti leciti.
“Spetta alla Procura dimostrare che Toti ha fatto atti contrari ai suoi doveri d’ufficio”, si spinge a dire Bocchino. Una bufala clamorosa. Il reato, infatti, sussiste anche quando l’atto compiuto dal pubblico ufficiale dietro pagamento non viola alcuna norma: si chiama corruzione impropria ed è prevista dall’articolo 318 del codice penale. Il senso della norma è semplice: la funzione pubblica non dev’essere mai condizionata da interessi personali, nemmeno sotto forma di finanziamenti elettorali tracciati.
Eppure la stessa assurda linea difensiva è sposata il giorno dopo da Bruno Vespa, che a Porta a Porta lancia una grafica con tanto di domanda retorica: “Il caso Toti. Soldi tracciati, provvedimenti leciti, c’è il reato?”. Insomma, le delibere adottate in favore di Spinelli – il rinnovo della concessione del terminal portuale Rinfuse e la trasformazione della spiaggia di Celle Ligure da pubblica a privata – vengono presentati tout court al pubblico come immacolati. Ma è davvero così? Non per la gip Paola Faggioni, che nell’ordinanza cita una sentenza di Cassazione secondo cui gli atti pubblici, “pur formalmente legittimi”, sono contrari ai doveri d’ufficio (e quindi punibili a titolo di corruzione propria) quando “si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali”.
Ma tant’è, il meglio della classe dirigente ha già deciso: Toti è un perseguitato, questi giudici vogliono impedire ai politici di fare politica. “Non vorrei si mirasse a dimostrare che chiunque si può arrestare”, spara il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Tanto più se, come sostiene Maurizio Belpietro sulla Verità, con la sua amministrazione l’ex volto Mediaset ha “salvato” una “Regione in declino”: “Si può discutere” se il suo rapporto con Spinelli “sia stato opportuno”, ma “la sostanza è che la stagione di Toti ha rimesso in gioco la Liguria”, scrive.
Così, per tagliare la testa al toro, ecco pronta la soluzione: tornare al finanziamento pubblico diretto ai partiti, superato nel 2013 dal meccanismo indiretto del 2xmille. A lanciare il sasso è Pier Ferdinando Casini, reduce della Prima Repubblica rieletto in Senato col Pd: “Bisogna ripristinare il finanziamento pubblico. In questo modo non dico che avremo sconfitto il malaffare, ma almeno toglieremo l’alibi di dire che è colpa della politica o delle elezioni”, ha detto ieri in un’intervista alla Stampa.
A conferma che il tema sia improvvisamente tornato centrale, ecco cosa dice nel pomeriggio a Sky il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti: “Se il finanziamento privato viene interpretato come vietato sui territori, allora meglio toglierlo definitivamente perché diventa difficile poi capire i rapporti. È una riflessione che va fatta”.
Per la verità il finanziamento privato non viene affatto “interpretato come vietato”, ma semplicemente perseguito se si prova che è stato erogato in cambio di favori. Questo concetto, però, sembra non avere cittadinanza in una certa area politico-mediatica. Tanto che Filippo Facci, sul Giornale, si lancia all’estremo opposto e propone di legalizzare, anzi incoraggiare, qualsiasi scambio tra politica e mondo degli affari in un fondo dal titolo “Bisogna aprire alle lobby private”: “In molte nazioni esistono dei gruppi di pressione che cercano legalmente di influenzare strategie e decisioni politiche”.
In realtà, però, all’estero il tema è preso sul serio: in Gran Bretagna, ad esempio, “se un candidato ha preso soldi da un’azienda, non potrà mai e poi mai intervenire sugli interessi di quell’azienda”, ricorda sul Riformista il professore di Diritto comparato Pier Luigi Petrillo. Da noi, invece, la proposta di legge sul conflitto d’interessi di Giuseppe Conte è stata affossata dal governo con un emendamento che l’ha svuotata.
(da ilfattoquotidiano.it)
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