FINCHÉ C’È L’OPERA (E IL GOVERNO MELONI) C’È SPERANZA PER LADY CASELLATI DI VEDERE UN GIORNO APPARIRE IL RAMPOLLO ALVISE SUL PODIO DELLA SCALA BRANDENDO LA BACCHETTA CHE FU DI TOSCANINI E ABBADO
IL MINISTRO DELLE RIFORME ISTITUZIONALI ASSEDIA L’ORECCHIO DI SANGIULIANO DI TELEFONATE PER FAR TRASLOCARE NEL TEMPIO DELLA LIRICA FORTUNATO ORTOMBINA, OGGI SOPRINTENDENTE DEL TEATRO LA FENICE DI VENEZIA, DOVE SUO FIGLIO È ORMAI DI CASA… ALTRI MUSICANTI SI FANNO AVANTI. BEATRICE VENEZI, ALBERTO VERONESI, NAZARENO CARUSI
“Caro Merlo, sembra esserci un gran lavorio per portare Alvise Casellati sul podio della Scala”, ha scritto un lettore di “Repubblica” ieri alla rubrica della Posta. “Ho letto che la ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati starebbe facendo fuoco e fiamme pur di vedere l’erede brandire la bacchetta nel tempio della lirica tricolore”. Gli ha risposto Francesco Merlo: “Mi rifiuto, ohibò, di credere che questo familismo sia vero e che sia possibile alla Scala”.
Sgombriamo, anzitutto, il campo da questo secondo italico aspetto: il familismo alla Scala si può, eccome: basti dire che il regista dell’opera attualmente in scena è Daniele Abbado, figlio di Claudio, e della prossima sarà Chiara Muti, figlia di Riccardo. Ci fermiamo qui, ma dai direttori scendendo sino alle maschere la Scala è un fenomenale parterre familistico.
Per arrivarci a dirigere, però, ci vuol cosa e cosa… e, forse per questo, la mamma-ministra ha preso la via del Lombardo-Veneto: conquistare prima Venezia e poi, con opportuni traslochi, il sacro tempio della musica colta, la Scala di Milano.
Lo scorso primo gennaio, dopo il concerto di Capodanno alla Fenice, la mamma-ministra dichiarò: “La Fenice costituisce un punto di riferimento della cultura italiana. Oggi l’essere qui è anche un riconoscimento per un evento che viene seguito in tutto il mondo”. Bella forza, alla Fenice, soprintesa dal bravo Fortunato Ortombina, suo figlio è ormai di casa.
Ha esordito nel 2011 in un concerto per l’Unità d’Italia per dirigere poi diverse opere: “Il signor Bruschino” nel 2018, “La scala di seta” (per quella di pietra deve attendere) nel 2019 fino al “Matrimonio segreto” nel 2023 anno in cui lo troviamo impegnato anche il 6 febbraio presso le sale apollinee in un incontro tenuto insieme al regista Luca De Fusco, recentemente catapultato da Genny Sangiuliano alla direzione della Fondazione del Teatro di Roma, tra mille polemiche.
Un’altra accogliente arena dell’Alvise Casellati è sempre nel Veneto felix. E’ l’Arena di Verona, dove era amministratore Gianmarco Mazzi, ora sottosegretario e nume di Sangiuliano per le note. Qui, Alvise, nel 2022 ha diretto nel “Nabucco” uno dei maggiori baritoni italiani, Luca Salsi, ora alla Scala. Forse sembrava troppo fargli dirigere lo scorso concerto di Natale in Senato dove la mamma fu presidente e dove Mazzi, ovviamente, ha portato la “sua” Arena di Verona (ora si ripromette di fare un altro “Concerto di Natale” il 7 giugno).
Se felix è il Veneto e non Milano, ecco l’idea materna di portare Venezia sotto la Madonnina (tipo Napoleone, diciamo), ovvero l’idea di spedire alla Scala il tanto buono e tanto caro sovrintendente della Fenice, Fortunato Ortombina. Le telefonate a ‘’Sangennaro’’ e a Mazzi sono state così insistenti, si dice, che il ministro della Cultura ha telefonato a sua volta al sindaco Beppe Sala (che di diritto è il presidente della Scala) suggerendo il nome di Ortombina come successore di Meyer.
Ma i danée per mandare avanti la baracca, oltre allo Stato, non ce li mette Sala (che, anzi, toglierebbe volentieri quelli del Comune) bensì il suocero di Sala, sua santità Abramo Bazoli, nume tutelare e unico di Intesa Sanpaolo. Ovviamente Lady Maria Elisabetta Alberti, coniugata Casellati, ha chiesto di incontrare il Grande Vecchio della Scala. Purtroppo, verso Brescia, dove abita la dinastia Bazoli, la linea telefonica della Casellati non prende.
Il presidente emerito di Banca Intesa, un saggio novantunenne che ha sempre detestato quell’intreccio politico del pecoreccio romano che scambia la prima dell'”Ernani” con la prima di Armani, confonde il Parmigianino con il pecorino, e rifiuta l’Ultima Cena di Leonardo perché hanno già mangiato, incarna l’ultimo baluardo di quella Grande Borghesia lombarda che si celebrava occupando i palchi della Scala.
Sul fondo c’era Arnoldo Mondadori, ed aveva come custodi a destra Angelo Rizzoli e a sinistra Edilio Rusconi. Da quest’altra parte si poteva ammirare Giovambattista Falk e Giovanni Pirelli, là al centro Angelo ed Erminia Moratti, e accanto i Borghi e i Radice Fossati; davanti a tutti troneggiava Annibale Brivio Sforza nel suo ruolo di intercettatore dell’aristocrazia lombarda. Il palco, poi, diventava proscenio all’arrivo dei Crespi, proprietari del Corriere della Sera.
Tutto finito. Oggi, nella città più amata da Stendhal, troneggianti sul palco reale, ti ritrovi Ignazio La Russa e Gennarino Sangiuliano, Vittorio Sgarbi e Daniela Santaché, con l’agitatissima Lady Casellati che non molla il sogno di vedere il suo pupone, bacchetta in mano, alla guida dell’orchestra scaligera e racconta agli amici di avere nel cda della Scala già il consenso di Fedele Confalonieri.
Coma mai tanta agitazione dal momento che il sovrintendente Dominique Meyer e il Cda della Scala scadono esattamente tra un anno? Perché i giochi si fanno adesso (anzi, per il sovrintendente in affiancamento siamo pure in ritardo). Una decisione che è nelle manine del
Cda della Scala che oggi è così composto: il presidente di diritto, il sindaco Beppe Sala (“coniugato’’ Bazoli), più nove membri:
Francesco Micheli e Maitè Carpio Bulgari di nomina ministeriale (il ministero della Cultura sgancia circa 30 milioni all’anno alla Scala), il pianista-pubblicista Nazzareno Carusi di nomina della Regione Lombardia, Alberto Meomartini per la Camera di Commercio e poi i privati: Giovanni Bazoli (Banca Intesa), Giacomo Campora (Allianz), Claudio Descalzi (Eni), Aldo Poli (Banca del Monte di Lombardia), oltre al sovrintendente in carica.
La commissione che deve suggerire al sindaco il prossimo sovrintendente è composta da Bazoli, Micheli e Meomartini. Inoltre, come succede in tutti i teatri d’opera al di là delle Alpi, si vuole procedere con una “doppia” nomina: sovrintendente e direttore musicale. Dato per impossibile che Sangiuliano rinnovi i due consiglieri nominati dal predecessore Dario Franceschini, Micheli e Bulgari, la nuova egemonia culturale fazzolara se la dovrà vedere con la Milano calvinista del “Qui, non si usa” che ancora deve digerire l’ingresso di Geronimo La Russa nel cda del Piccolo Teatro, secondo sacro tempio della cultura meneghina.
Alvise Casellati non è l’unica casella che balla nel Minculpop musical-meloniano. Altri musicanti si fanno avanti. Della Venezi e del suo lato B(ioscalin) ormai tanto si è detto. Pare che, a microfoni spenti, anche i musicisti dei Pomeriggi musicali di Milano, dove la biondissima ha diretto la scorsa settimana, abbiano dichiarato che “sul palco lei non dirige, balla”. Cioè, non anticipa, segue.
Nel grande walzer del post-amichettismo dei compagni anche altri si sono lanciati o si stanno lanciando, sebbene per ora la Meloni si fidi solo dei camerati di lunga appartenenza (Giuli, Buttafuoco…): questo è il curriculum richiesto.
Alberto Veronesi è il direttore d’orchestra divenuto famoso per aver diretto bendato (a occhi chiusi) la scorsa inaugurazione del Festival pucciniano in segno di protesta contro la regia “non tradizionale”.
Nel settembre 2020 questo figlio del professor Umberto, soprannominato dai maligni “Tanto tumore per nulla”, era parte integrante dell’amichettismo di sinistra. “Caro Salvini – scriveva Veronesi nel 2020 – davvero vuoi farci credere che la Lombardia di Attilio Fontana si un modello preferibile alla Toscana di Enrico Rossi?”.
Ai tempi, Veronesi era candidato con il Pd in Toscana e prima aveva sostenuto Beppe Sala per la corsa a sindaco di Milano (se ne ricorderà?). Poi, oplà, con un primo walzer si candida a Lucca sostenuto dal Terzo polo. Quindi, doppio passo e alle scorse regionali in Lombardia si è candidato con Fratelli d’Italia per il rinnovo di Attilio Fontana. Trombato. “Non sono un politico di professione – dichiarò allora -. Sono un direttore di orchestra e mi ritengo libero: la libertà va tutelata”. Libertà va cercando, ma anche un posto dove sedersi a lui più adatto del podio. Lo prenderebbe anche bendato, a occhi chiusi.
L’abruzzese Nazareno Carusi, pianista di buon talento, divenne all’improvviso il ventriloquo dell’ex critico musicale di “Giornale” e “Corriere” Paolo Isotta, sino ad imitarne così bene lo stile dotto e artificioso tanto che i maligni sostenevano fosse l’Isotta stesso l’autore. Isotta, omosessuale di destra cacciato dalla Scala per i suoi comportamenti, era ancora l’aedo di Riccardo Muti (prima di rivoltarsi contro) e per specularità lo divenne anche Carusi.
Muti lo ricompensò e non si vergognò di definire Carusi “pianista di altissimo valore”, per non parlare di Isotta, che lo riteneva l’erede della scuola russa, praticamente Arthur Rubinstein. Lanciato nientedimeno che dal programma di Mediaset Mattino Cinque, nel 2018 Carusi – nonostante ‘si grandi apprezzamenti – pensò bene di ritirarsi dall’attività concertistica (nessuno se ne accorse).
Fu allora che il corregionale Gianni Letta lo lanciò nel management culturale. Carusi divenne membro del comitato artistico della Filarmonica e poi il grande balzo: la Scala. Non come pianista – questo ce lo siamo risparmiati –, ma come consigliere di amministrazione, sebbene non di nomina governativa perché al Governo c’era Franceschini. Fu chiesto alla fontaniana Regione Lombardia, che nomina un membro nel Cda del Piermarini. E lì si trova in speranza di un destro rinnovo o di una direzione artistica.
(da Dagoreport)
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