GENOVA, LE STORIE DEI PROFUGHI UCRAINI RACCONTATE CON I LORO BAGAGLI
LE AUTOMOBILINE DI DANILO E LE LACRIME DI SUA MAMMA: “GRAZIE GENOVA“
Questa decappottabile blu e questa Cadillac metallizzata arrivano da Kiev: ma ci sono arrivate in treno. Hanno viaggiato con Danilo, che ha cinque anni e le teneva strette in mano quando di notte, con sua mamma e sua nonna, andavano a dormire giù nel seminterrato e avevano paura, e infatti i grandi hanno deciso che bisognava partire: subito, il primo giorno di guerra.
Puoi prendere un gioco e basta, gli ha detto la mamma: e lui ha scelto le sue macchinine. Che sarebbero due, in effetti: però piccole. Sono pezzi di antiquariato di una vita lontana anni luce, questi oggetti che i profughi ucraini hanno portato con sé durante viaggi rocamboleschi e terribili, tutti diversi eppure identici: l’angoscia, la decisione di andare, l’adrenalina e il sollievo, la gratitudine di essere qui, e di essere vivi.
Stupore, anche, e infatti le macchinine di Danilo come l’inalatore per l’asma di Vasyl o i quadri di Tania custoditi nel telefonino sono prove di esistenza della vita di prima. Danilo le sue auto da corsa le ha strette nelle mani sudate, quando a Poltava hanno preso il treno, e dopo poco quel treno è stato bombardato mentre loro ci erano seduti sopra. La mamma lo ha protetto stringendolo a sé, per ripararlo dalle schegge, e lui ha pensato che forse quelle macchinine sono magiche, perché non si sono fatti niente.
Hanno solo dovuto scendere e aspettare un altro treno, poi un altro, Danilo ha perso il conto dei giorni e a un certo punto sono arrivati qui, a Villa Quartara, a Quarto, nel centro gestito dal Ceis e lui le ha parcheggiate sul comodino della sua nuova stanza. La mamma e la nonna hanno gli occhi rossi mentre raccontano, attraverso la mediatrice, di quel treno bombardato e di quel viaggio infinito.
Però lei, la mamma che ha trent’ anni, si ricordava di Genova e dentro di sé lo sapeva, che sarebbe andata bene.
Ci era già stata, vent’ anni prima, in estate: con l’associazione dei bambini di Cernobyl qui aveva trovato una seconda famiglia che la portava al mare a Sestri Levante.
E infatti ci tiene a ripeterlo all’interprete, con la voce che si frantuma: grazie, grazie Genova.
Per Tania, il padre anziano e il figlio di tredici anni, tra il prima e il dopo c’è il buio: e non è una metafora. Il treno su cui viaggiavano, fino a Leopoli, teneva le luci spente per non farsi bombardare dai russi. Loro sono scappati il 4 marzo: con i vestiti che avevano addosso, e basta. Il nonno è pensionato, lei lavorava in banca ma ha la passione per l’arte. Le sue opere le conserva sul telefonino, non è lo stesso ma è qualcosa. Ha portato solo il passaporto e le bottiglie d’acqua.
L’amuleto di Vasyl non è una macchinina magica: anche se la sua auto, una più ordinaria station wagon, qualche superpotere deve pur averlo avuto, visto che ha portato lui e sua moglie fino qui, da Mykolaïv.
Professore di Storia in pensione lui, insegnante alla primaria sua moglie, di partire non avevano alcuna intenzione: «Amiamo la nostra terra». Il rumore delle bombe, però, è stato più forte: le sentivano cadere sempre più vicine, «ogni dieci minuti » .
A un certo punto il palazzo accanto al loro si è polverizzato. Puf. Non c’era più: solo terra. Vasyl ha problemi al cuore, e soffre d’asma. Lui e la moglie stavano da giorni nel seminterrato. Buio, freddo, paura, eppure sul telefonino le conservano ancora, le fotografie di quel rifugio: forse perché, a modo suo, è casa. Il muro scrostato, un lettuccio di fortuna sommerso di coperte di lana, ai piedi due file di bottiglie d’acqua. Sono scappati in macchina, una mattina. Non hanno portato quasi niente: le medicine, sì. Perché Vasyl è asmatico, e si è portato l’inalatore. Lo tiene ancora lì, sul comodino
(da la Repubblica)
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