GIORGIA E IL SUO “CLAN”, VIAGGIO NEL PARTITO CREATO DALLA MELONI NEL NOME DELLA CONSANGUINEITÀ: SORELLE E COGNATI, MOGLI E MARITI, CUGINI D’OGNI ORDINE E GRADO. UNA FITTA RETE DI LEGAMI EXTRAPOLITICI E FAMILIARI SI È IMPOSTA NELLE ISTITUZIONI
QUESTA SELEZIONE DELLA CLASSE DIRIGENTE TRASFORMA L’ALBERO GENEALOGICO IN QUELLO DELLA CUCCAGNA. UN ‘PREMIO FEDELTÀ’. FDI NON È SCALABILE, NON C’È SPAZIO PER CHI CRITICA
La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma forse di famiglia sì. Sorelle e cognati, mogli e mariti, figli e nipoti, compagne e fidanzati, cugini di ogni ordine e grado, padri e madri, nonni e zii, magari anche d’America. Sono i parenti d’Italia, ovvio. Risposta sanguigna, muscolare e sfacciata alla deplorata egemonia dell’“amichettismo” de sinistra.
Un romanzo popolare arcitaliano che regala ogni giorno un nuovo cadipitolo. E puntualmente rivendicato, mento all’insù, nel nome dell’ancestrale militanza che evidentemente deve essere meglio della misticanza. “Embè?”. Risulta così quasi beffardo, profetico e gioioso il nome del partito in cui tutto questo è norma e fluidità, luogo comune e punto di forza: Fratelli d’Italia.
Una selezione della classe dirigente che può trasformare l’albero genealogico in quello della cuccagna. Il riconoscimento di una vita di sacrifici, ma anche il “premio fedeltà”, come la trasmissione di Radio Deejay. La storia – meglio: la cronaca – sono loro.
A mettere insieme prime donne, protagonisti, secondi attori, comparse e maschere sono tanti, tantissimi. Un clan – nell’accezione politica del termine – senza eguali.
Dalle parti della “Fiamma magica”, che governa e prospera nel paese, si registra una certa sistematicità di questo fenomeno. Sembra quasi una regola tribale d’ingaggio. A Roma, compound meloniano, la mettono così: semo cresciuti insieme. Un’endogamia nelle istituzioni che parte e si rispecchia nel partito, avanti e indietro come un elastico.
La prima forza d’Italia anche con l’ultima tornata di congressi locali ha perpetrato logiche un po’ di vassallaggio e molto di appartenenza senza mai aprirsi – nonostante il boom di iscritti – a nuove culture politiche nei ruoli che contano. Sempre loro, solo loro. D’altronde, aggiungerebbe Corrado Guzzanti: “Aborigeno, io e te ma che se dovemo di’?”.
Figurarsi legittimare minoranze interne che da statuto sembrano non essere contemplate: niente si può scalare, mettere in discussione, ma solo continuare. E comunque si può sempre fare un gioco: cercate e contate le interviste in disaccordo o lievemente critiche con la linea del partito, dunque del governo, uscite sui media in questa legislatura. Spoiler: zero. Nemmeno le mezze frasi rubacchiate nei corridoi del Transatlantico dai cronisti più svelti: nisba.
E dunque la sera uscivamo a Colle Oppio, culla- cripta del tutto meloniano con vista sul Colosseo? Sì certo, va bene, ma non solo. La storia, ripetuta tutte le volte con più o meno convinzione e con sbalzi di epos e pathos, è sempre la stessa: eravamo giovanissimi, poi una piccola corrente di An, non contavamo un’acca, vivevamo di politica e manifesti affissi dalla mattina alla sera con coraggio e visione, emarginati nelle università e fuori dai salotti, ma alla fine la sera non si poteva vivere solo di politica… Logiche normali in una polisportiva, ma di sicuro inedite nel panorama italiano.
Che diventano prassi, e sì, modus vivendi, in una formazione che ormai è conclamata e acclamata forza di governo dall’ottobre del 2022. Ed è subito la “ mejo gioventù”. Quella dei campi base, quella del romanticismo e, certo, di Tolkien.
Dicono quelli bravi che “l’origine” è una vecchia ossessione di tutte le destre sovraniste europee. Un modo per essere sospettosi, per principio, verso “lo straniero” o colui che viene dall’esterno (Marine Le Pen è la figlia di Jean Marie, ha una nipote in politica con la quale si è ricongiunta, Marion Maréchal sposata con l’ex eurodeputato di FdI Vincenzo Sofo, ha candidato la sorella Marie Caroline alle politiche e perfino l’enfant prodige del Rassemblement national Jordan Bardella è stato fidanzato con una delle sue nipoti per diversi anni).
Non a caso, una delle frasi più ricorrenti della premier italiana, forse anche a ragione, è: “Sì, ok è bravo, ma non lo conosco: mi posso fidare?”.
Lo scorso 4 gennaio a Roma si celebrò l’ultima conferenza stampa della premier e presidente di FdI, Meloni, la capa. Da quel giorno, siamo a luglio inoltrato, la presidente del Consiglio non ha più organizzato un evento simile con i giornalisti italiani, nemmeno dopo fatali Consigli dei ministri.
Bene, in quell’occasione di sei mesi fa, negli annali del 2024, il Foglio domandò letterale: “Buongiorno, presidente, il caso Pozzolo (il deputato che si presentò con una pistola a un veglione di Capodanno e da cui partì un colpo che ferì una persona) mette in luce un problema di classe dirigente nel suo partito che, nonostante ottimi sondaggi, sembra ancora conservare la struttura di quando era al 4 per cento, quasi a conduzione familiare: in prospettiva, crede sia necessario allargare il suo partito alle forze migliori del paese e magari di archiviare la Fiamma dal simbolo dopo le europee?”.
Meloni ammise di voler rappresentare sempre più cittadini e di voler allargare la sua classe dirigente. E alla fine si disse “stufa” delle accuse di familismo. Dunque portò un esempio, a suo dire, fattuale. Era una domanda che si aspettava, dopo i minuziosi carotaggi dello staff nei giorni precedenti nelle redazioni.
Così rispose la premier, tutta d’un fiato: “Nell’attuale legislatura ci sono due coppie di coniugi, entrambe a sinistra: nel Pd e in Sinistra italiana. In quest’ultimo partito c’è un gruppo di otto persone e quindi queste due persone fanno circa il 25 per cento del gruppo. Non ho mai sentito l’accusa di familismo nei loro confronti. E sarebbe sbagliata.
Perché chi milita, chi fa politica spesso sa che diventa tanto altro e che le persone che fanno politica con te diventano anche i tuoi amici, i tuoi fidanzati, tuo marito e tua moglie. Ma questo non può togliere il valore di un militante politico. E, come è normale per le persone di cui sto parlando, non accetto che si faccia con me. Mia sorella è una militante, da trent’anni lavora in Fratelli d’Italia. Ha ragione – rispose rivolta al cronista con un tono che preludeva la stoccata – forse potevo metterla in una partecipata, ma non me la sono sentita e l’ho messa a lavorare nel partito mio”.
Rewind, ultima frase: l’ho messa a lavorare nel partito mio, proprio così disse Meloni. Basta riascoltare, si ritrova tutto su YouTube. E allora, senza mettere in discussione l’assoluta capacità di tutti i quadri di FdI che hanno solo la “colpa” di aver marciato insieme, uniti come una testuggine, in questi anni duri e tempestosi di opposizione e ghetto, eccone una rapida carrellata. Che tanto rapida, nomi e cognomi alla mano, non è. Prima gli elefanti nella stanza. Arianna Meloni, la sorella d’Italia.
Nata sotto il segno dei Gemelli, 49 anni, due più di Giorgia, accompagnati da cinque centimetri in più che la fanno svettare. Dallo scorso agosto è responsabile della segreteria politica di FdI, oltre che del tesseramento. Potente, ma con un tocco popschietto- rivendicativo che la rende empatica come la sorella underdog. Arianna ha un filo: tiene sempre con sé, legato con un cordino tricolore, uno dei cellulari più influenti del paese.
Da quello smartphone passa tutto o quasi: nomine, lamentele interne, soluzioni nel partito e nel governo, ricerche di protezione, la ristrutturazione della sede di via della Scrofa, piccole vendette e grandi sospetti, oltre a una serie sterminata, quando l’affare si ingrossa, di “ne parlerò con Giorgia, ho capito, baci”.
Arianna Meloni, che spesso occupa la stanza della sorella-presidente che fu di Giorgio Almirante ai tempi del Msi e di Gianfranco Fini in quelli di An prima della bancarotta politica, da oltre vent’anni è la compagna – “con normali alti e bassi”, raccontano dalla corte dove si vive anche di sapidi pettegolezzi – di Francesco Lollobrigida.
Attenzione: Lollo è Lollo. E’ il ministro della Sovranità alimentare e capo delegazione di FdI al governo. Scaltro, sfacciato, agile, stratega, polemista con licenza di gaffe, guascone. Insostituibile a prima vista. Ha iniziato facendo il consigliere provinciale con Giorgia Meloni. La coppia ha due figlie: Rachele e Vittoria. Si conobbero alle “feste dei rioni” organizzate dalla sezione di Colle Oppio, quando davvero la fiamma ardeva – gratis – la passione politica di questi ragazzi. […]
Tuttavia, anche la squadra di governo può dare soddisfazioni. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento è Luca Ciriani da Pordenone, già capogruppo in Senato nella passata legislatura, prima di aver ricoperto anche l’incarico di consigliere regionale e di vicepresidente della regione Friuli Venezia Giulia.
Gavetta a destra, dal Msi a salire, di curva in curva, con le piccole svolte, evitando le buche più dure. Il ministro Ciriani, uomo di lettere con voce piana, ha un fratello di tre anni più piccolo. Si chiama Alessandro: è stato presidente della provincia di Pordenone poi sindaco di Pordenone per otto anni fino allo scorso giugno.
Quando Ciriani jr è stato eletto europarlamentare di Fratelli d’Italia nella circoscrizione nord-est con 43.965 preferenze. Un fratello chiama un nipote come nel caso di Giovanni Crosetto, classe 1990, eletto a Strasburgo un mese fa (indovinate con quale partito) con una dote personale di 33.964 voti.
Già capogruppo di FdI nel Comune di Torino (1002 preferenze) è il nipote di Guido, ministro della Difesa, cofondatore di FdI, anima liberal e non intruppata di un partito un po’ caserma e animato da un pensiero magico.
Pare che gli stia un po’ sul gozzo l’area – non chiamatela corrente – vicina a Giovanni Donzelli, capo dell’organizzazione di FdI, homus totus machina. Guido è l’unico raccontano cronache a cui fare la tara in questo pissi pissi – in grado di sostenere liti accese con “il presidente” del Consiglio senza finire su un aereo per le Filippine con un biglietto di sola andata. E’ l’unico a dirle e a scriverle, in privato, “cara Giorgia, ti stai sbagliando”.
In questo turbinio di “Mariti e mogli”, tipo film di Woody Allen, appena si formò il governo uscì fuori la storia che il silente (dote non banale) ministro della Sanità Orazio Schillaci, già rettore dell’Università di Tor Vergata, fosse il cugino di seconda grado acquisito di Lollobrigida, e cioè del politico “nato parente” (come ebbe a dire egli stesso a questo giornale con una fulminante battuta ricordando il cognome che lo legava alla Lollo nazionale, la star Gina da poco scomparsa, nipote del fratello del suo bisnonno). Fu una di quelle notizie ritenute verosimili.
Siamo andati a cercare conferme: “Tendiamo a escluderlo, ma possiamo informarci, questa però non l’abbiamo mai sentita”, dicono i dirigenti del ministero con la curiosità di chi fa gli album delle figurine Panini: “Ah, questa ci manca”. Come, restando sempre nello spettro del governo, in tanti segnalano la presenza (è una minuzia) nel gabinetto di Palazzo Chigi, via Ente nazionale del turismo, di Silvia Cavallari, figlia della ministra della Famiglia (giustamente) Eugenia Roccella, personalità poliedrica con storia e pedigree fuori dall’ordinario da raccontare e contenuto nel bel libro ‘Una famiglia radicale”
Poi, certo, c’è la famiglia missina. Quella della seconda carica dello stato, all’anagrafe Ignazio Benito Maria La Russa. Lo zio di FdI. Tutto abbastanza noto: è figlio dell’avvocato e parlamentare Antonino da Regalna (Paternò) trapiantato poi a Milano. Una gens che ha attraversato, con un armamentario ideologico-fattuale abbastanza appuntino per offendere e difendersi, tutto il Novecento: dal Pnf, al Msi, poi Fiuggi, An, Pdl e FdI.
Uno dei figli del presidente del Senato, invece, è Geronimo Antonino. E’ il presidente dell’Aci di Milano, nominato da questo governo (dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: niente fischi, please) nel cda del teatro Piccolo di Milano, fondato il 14 maggio 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi con “il desiderio di dare vita a un teatro inteso come servizio pubblico: un’istituzione necessaria e a vantaggio di tutta la cittadinanza”, si legge nel sito del Piccolo.
Giorgia Meloni a domanda sull’opportunità di questa nomina, a margine di un’iniziativa, rispose così alle telecamere di “Piazzapulita”: “Non conosco la vicenda e il modo con cui questa è accaduta: conosco Geronimo per aver fatto diverse cose nella sua vita e tendenzialmente non per indicazione del padre. Dopodiché capisco che possa generare delle polemiche, ma penso anche che le persone debbano avere delle possibilità indipendentemente dal cognome che portano. Altrimenti tutti quelli che hanno un cognome affine a un politico e magari lavorano nelle partecipate statali sono arrivate in quei posti per raccomandazione, no?”.
Lo “zio Ignazio” è la seconda carica dello stato in quota FdI. La quinta tecnicamente è ricoperta da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera. Ex olimpionico di nuoto, ideologo e architetto del nucleo fondante romano e non solo, gabbiano maximum, da cui tutto è nato – o quasi – ha due sorelle.
Una di queste, Manuela, è la moglie di Marco Scurria, lunga gavetta iniziata con gli universitari di destra, europarlamentare ai tempi del Pdl nel 2009 e ora senatore, da poco nominato vicepresidente del gruppo in virtù degli accordi raggiunti da Rampelli e Arianna Meloni durante il congresso di Roma (vinto senza avversari da Marco Perissa, onorevole, svelto nonché cocco della sorella della premier, dopo il ritiro del gabbiano Marco Milani, diventato vice di Donzelli all’organizzazione).
Tutto parte da Colle Oppio, rifugio di esuli e prima sede del Msi, attualmente l’Ena italiana (sic). Insomma, non se ne esce. Altro che tessera di partito, servirebbero le analisi del sangue. Quando il governo Meloni decise di mettere le mani sull’Istituto superiore della sanità, sostituì Silvio Brusaferro con Rocco Bellantone, direttore del centro dipartimentale di chirurgia endocrina e dell’obesità del Gemelli e già preside della facoltà di medicina.
Titoli in regola, lecito spoils system, ma spuntò fuori che era anche il cugino di Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, genio della lampada del melonismo. Uomo centrale e ruvido, c’è chi dice geniale e c’è chi dice esiziale, del governo.
“E’ mio cugino di terzo grado”, disse “Fazzo”. “L’avrò visto tre volte”, aggiunse il neo presidente dell’Iss. Più diretto – evviva la sincerità – è stato Edmondo Cirielli, ras del partito in Campania e viceministro degli Esteri, che non ha battuto ciglio quando un paio di settimane fa il Consiglio dei ministri ha nominato la compagna, Maria Rosaria Campitiello, a capo del dipartimento prevenzione ed emergenze sanitarie del ministero della Salute, guidato da Schillaci.
Altri sottosegretari in famiglia: la viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci ha un marito psicologo e da lungo tempo esperto di lotta alle tossicodipendenze: un’attività da far valere anche nel dipartimento tematico di Palazzo Chigi. I maligni dicono che la nomina governativa sia arrivata quando Bellucci ha lasciato l’area di Rampelli (non chiamatela corrente: vi aspetta sotto casa) per andare dannunzianamente “verso la vita”, cioè le sorelle Fiamma).
Se tutto è consequenziale, anche gli staff non sono da meno: cognati, sorelle, mariti, nipoti albergano a Palazzo Chigi, nei ministeri e alla Camera, professionisti che non occupano ruoli politici, seppur pagatissimi. Logiche esplicative che restano però sotto la dicitura di un prezioso sottobosco non diverso da quelli del passato. E’ tutto un paradosso denso di normalità. “Embè?”. Al punto che la consigliera comunale di FdI, nonché la più votata a Roma, Rachele Mussolini, figlia di Romano e nipote di Lui, si è lamentata di non essere stata candidata alle europee per via del cognome. A questo punto è quasi il colmo, no?
(da il Foglio)
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