GLI ULTIMI 57 GIORNI DI PAOLO BORSELLINO
IL DOSSIER MAFIA-APPALTI, IL “COVO DI VIPERE”, L’ULTIMA INTERVISTA: “LA SENSAZIONE DI ESSERE UN SOPRAVVISSUTO”
“Io sono un magistrato e sono un testimone”. Era il 25 giugno del 1992 quando, nel suo ultimo intervento pubblico, Paolo Borsellino pronunciava queste parole.
Si riferiva a quello che sapeva sulla morte di Giovanni Falcone, suo collega e amico, ucciso appena un mese prima, nella strage di Capaci.
Sottolineava la parola testimone, non per manie di protagonismo ma per una doppia consapevolezza del suo ruolo: Borsellino, proprio perché in rapporti stretti con Falcone, riteneva di essere a conoscenza di elementi utili per ricostruire le cause della strage del 23 maggio 1992.
In questo intervento di mezz’ora – fatto durante un’assemblea pubblica organizzata a Palermo da La Rete e ancora integralmente ascoltabile su Radio Radicale – il magistrato lancia accuse alle istituzioni, alla sua in primis, ma sta molto attento a non raccontare dettagli che sa bene essere destinati a un’altra sede.
In quella sede, la procura di Caltanissetta, competente sui fatti riguardanti i magistrati di Palermo e quindi per la morte di Falcone, non ci arriverà mai.
Nonostante avesse chiesto esplicitamente di essere interrogato in fretta – sapeva di essere in pericolo, sapeva, addirittura, che fosse arrivato il tritolo destinato all’attentato nei suoi confronti – quella testimonianza non riuscì a rilasciarla.
Fu ucciso in via D’Amelio il 19 luglio 1992, meno di due mesi dopo la morte di Falcone.
L’intervento del 25 giugno è tra i messaggi più importanti che Borsellino lascia prima della sua morte. Non c’è nulla, se non gli atti dei procedimenti a cui stava lavorando, di scritto negli ultimi 57 giorni del magistrato.
Non c’è perché, come ha ricordato all’Huffpost l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, qualcosa forse avrebbe potuto essere trovato nell’agenda rossa da cui il giudice non si separava mai. Ma quell’oggetto così prezioso – chi ha seguito il lungo percorso giudiziario che ha seguito questa storia lo ricorderà – sparì il giorno stesso dell’attentato.
Le indagini per capire se qualcuno l’avesse portato via e perché sono partite dieci anni dopo la strage. Un tempo troppo lungo per poter appurare una verità completa.
A poche settimane dalla pronuncia con cui la Cassazione ha messo la parola fine sul processo Borsellino quater, stabilendo, senza più possibilità d’appello, che il depistaggio dopo la morte del giudice c’è stato, e nell’attesa delle motivazioni, vale la pena ricordare le tracce orali più importanti che Borsellino ha lasciato prima di essere ucciso. Perché, come tiene a ricordare sempre la famiglia, la strada per capire davvero cosa è successo prima e dopo via D’Amelio passa anche e soprattutto da lì.
Durante l’incontro prima citato, pur stando attento a non rivelare dettagli che ancora sperava di poter dire a un pm in qualità di testimone, Borsellino non risparmia parole pesanti contro “qualche giuda” che lasciò solo l’amico.
E lancia un’accusa pesante alle toghe. “La magistratura”, dice “forse ha più responsabilità di tutti,” nell’aver isolato Falcone prima dell’omicidio. Nel non aver voluto riconoscere il valore del suo lavoro da magistrato ma anche da tecnico in forze al ministero della Giustizia.
Parlava dell’amico quella sera, ma in qualche modo parlava anche di sé. Perché, negli ultimi giorni vita Borsellino dovette combattere per poter continuare a seguire le sue piste, per mandare avanti il suo lavoro contro Cosa nostra.
A ostacolarlo non solo Cosa nostra, non solo la difficoltà della materia, ma anche un pezzo di procura palermitana. Gli scontri che ebbe con il suo capo, Pietro Giammanco, sono noti.
E se da vivo almeno Borsellino aveva la tenacia di difendere il suo lavoro, subito dopo il decesso le sue indicazioni andarono in fumo. Del dossier mafia appalti – lo vedremo meglio dopo – si perse traccia a pochissimi giorni dalla sua morte, in quella procura che lui stesso definì “un nido di vipere”.
Un’espressione forte, usata circa un mese prima di morire, che Borsellino usò parlando con l’allora giovane collega Massimo Russo, come ricordato da lui stesso in uno dei processi seguiti alle stragi di mafia. Su quelle parole, pronunciate a ragion veduta, nessuna delle tante toghe che in questi quasi 30 anni ha trattato il caso si è mai soffermata a sufficienza.
“Sarà stata una semplice confidenza affidata a un amico in un momento di rabbia e sconforto”, potrà pensare qualcuno. Possibile, certo. Il problema è che le richieste e le osservazioni fatte dal giudice prima della morte furono ignorate anche quando formulate in ben altre sedi.
Non in un momento di pausa dal lavoro, ma proprio in una riunione con i suoi colleghi. Era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita. I magistrati della procura di Palermo erano tutti insieme per un momento di confronto.
Una prassi che si ripeteva periodicamente e che in quel caso era ancor più importante perché l’ultima prima della pausa estiva. Borsellino, in quella sede, chiese esplicitamente che venisse approfondito il dossier mafia appalti.
Si tratta di una lunga informativa sugli appalti pubblici firmata da Mario Mori e Giuseppe De Donno – gli stessi ex Ros assolti poche settimane fa nel processo d’appello sulla presunta Trattativa Stato-mafia – in cui venivano evidenziati i rapporti economici tra mafia, pezzi di imprenditoria, massoneria e politica locale, andando probabilmente a lambire anche il Palazzo di giustizia.
Borsellino a quel dossier teneva molto, aveva capito che quella pista avrebbe portato a conclusioni rilevanti. L’importanza per il magistrato era tale che non solo in quella riunione propose che fosse approfondito, ma chiese anche un nuovo incontro ad hoc per valutare organizzare il lavoro. Incontro che, però, nessuno ebbe il tempo nemmeno di programmare.
Sul fatto che Borsellino volesse capire tutto il possibile ruolo della mafia negli appalti pubblici la famiglia ha sempre posto l’accento.
Convinta che fosse da cercare lì la chiave dell’omicidio. Lo ha ripetuto il legale dei Borsellino in tutte le occasioni possibili, davanti ai giudici soprattutto. Ma la richiesta esplicita di Borsellino in particolare, sono rimasti sconosciuti all’opinione pubblica fino al 2020, quando il Csm ha desecretato le audizioni fatte a fine luglio 1992, pochi giorni dopo la morte di Borsellino.
A spiegare le richieste fatte da Borsellino in riunione su mafia e appalti, in quel caso fu Nico Gozzo, allora magistrato a Palermo e, molti anni dopo, pm artefice dell’indagine che ha portato al processo Borsellino quater.
Ai rilievi del magistrato fu dato seguito dopo la morte? Neanche per idea. Anzi richiesta di archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti era già stata stilata il giorno prima della riunione, il 13 luglio. Come si legge nel documento, fu depositata il 22 luglio. Borsellino era morto da tre giorni.
La storia di tutto ciò che è seguito all’assassinio del magistrato è piena di buchi, ma se si sta ben attenti si nota come certe cose, a volte, tornano. E come i puntini, nonostante il passare del tempo, ancora possono essere riunite.
Magari non (più) per appurare responsabilità penali, ma certamente per cristallizzare una realtà storica. Ed ecco che, dopo quasi 30 anni dall’omicidio, il giudice d’appello del Borsellino quater in sostanza ritornava su quel dossier e diceva che una delle ragioni per cui il giudice era stato ucciso era la “cautela preventiva” rispetto al lavoro che avrebbe voluto fare.
Il dossier mafia appalti era in cima alla lista delle priorità del magistrato e, quindi, per il giudice del depistaggio potrebbe essere stata una delle principali ragioni per cui è stato ucciso. Per altri addetti ai lavori, invece, quelle quasi 900 pagine erano un ingombro da cestinare.
Ci misero davvero poco a farlo, per superficialità forse, o forse perché non erano riusciti a vedere fin dove Borsellino aveva visto.
Ma quello del 22 luglio 1992, il giorno in cui si decise di chiudere l’inchiesta e lasciare le carte a prendere polvere in chissà quale cassetto, fu solo il primo oltraggio alla memoria del magistrato. Quello più grande sarebbe arrivato pochi mesi dopo: qualcuno lo ha chiamato “teorema Scarantino”. I giudici, ed è questo che conta, lo chiamano “il più grande depistaggio della storia d’Italia”. Sul quale, forse, si sarebbe dovuta accendere qualche luce in più.
L’ultima intervista a Paolo Borsellino fu fatta da Lamberto Sposini, all’epoca vicedirettore del Tg5. Ne riportiamo l’ultimo stralcio. Senza premesse né commenti. Non ce n’è bisogno:
Sposini: “Si sente un sopravvissuto?”.
Borsellino: “Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio, le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e vorrei dire anche di come lo faccio. (…) Sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia e so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”.
(da Huffingtonpost)
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