“HO ACCOLTO MIGRANTI DISPERATI, OGGI SONO FELICI E MI HANNO DONATO GIOIA”
IL RACCONTO DI UNA SIGNORA ROMANA: “NIENTE PUBBLICITA’, VOGLIO SOLO CHE TUTTI CAPISCANO CHE ESSERE SOLIDALI E’ UNA GRANDE ESPERIENZA”
Loro ci hanno pensato prima. Prima del Papa e dei politici.
In silenzio, senza enfasi hanno aperto le porte delle loro case, le stanze dei figli ormai cresciuti, per ospitare rifugiati e migranti.
Sono uomini e donne che per mesi hanno organizzato l’assistenza rifocillando oltre 70mila persone in fuga dalla Siria nel mezzanino della stazione centrale a Milano, sono i romani che hanno accolto negli anni i ragazzini afghani che vivevano alla stazione Ostiense, condiviso pranzi e cene con famiglie eritree o iracheni arrivate nella capitale dopo viaggi attraverso l’inferno.
Ora queste signore coraggiose, pudiche ma concrete, forzano la loro natura e parlano: “Perchè la storia si ripete, perchè la nostra esperienza magari può convincere altre famiglie ad accogliere chi oggi fugge dalla guerra e dalla fame”.
Così dice Misa Chiavari, fisica in pensione, madre di quattro figli ormai adulti, da anni impegnata – tra le mille altre cose – a fare lezione di italiano per i migranti al centro capitolino dei gesuiti Astalli.
Le storie dei ragazzini fuggiti da Afghanistan e Iraq. La sua casa è piena di fotografie. “La mia famiglia allargata”, sorride, raccontando le storie dietro ogni volto.
Storie di ragazzini partiti dall’Afghanistan, dall’Iraq con pochi soldi in tasca e molta paura, finiti nelle celle di paesi che parlavano lingue sconosciute, sfruttati in Libia, Iran o in Grecia “dove gli facevano bere latte nelle concerie di pelle per sopportare le sostanze velenose che per giorni arrivavano anche a paralizzarli”.
Storie di violenza subita e tenacia, vicende uguali a quelle dei rifugiati che oggi arrivano in Italia in cerca di un futuro che passa attraverso le stazioni.
Oggi Budapest, ieri Ostiense. “Perchè tutti quelli che partono dall’Afghanistan avevano, ma ancora oggi hanno, un biglietto con questa stazione Ostiense come unico indirizzo a Roma”.
Lì dormivano Ali e Ismet – cartoni per materasso e giornali quando andava bene per coperta – quando i centri per rifugiati non avevano posto o il loro tempo era scaduto. “Li ho incontrati alla scuola per italiani dove venivano i rifugiati, e quando è arrivato l’inverno con altri insegnanti siamo andati alla stazione e ce li siamo portati a casa. Nessuna paura, nessun problema, mai avuto guai. Anzi erano loro impauriti da me. Ci hanno messo tanto a fidarsi, a raccontarmi le loro storie, la loro vita di prima. Come Ali, talmente abituato alle mine che uccidevano ogni giorno che il gioco pomeridiano degli adolescenti a kandahar era riportare i pezzi delle vittime saltate per aria. Pensava fosse normale, che tutto il mondo fosse cosi, fino a quando i mujaedin hanno decimato la sua famiglia e lui quindicenne è scappato, rifugiandosi prima in Pakistan, poi in Iran, infine arrivando in Europa”.
Fermati alle frontiere e messi in carcere. Storie che si incrociano con quelle di oggi, ripetendosi all’infinito.
Perchè passare i confini è sempre stata una lotta per chi scappava da guerre e fame. “Ali mi ha raccontato che per ben 15 volte ha cercato di passare la frontiera ed entrare in Grecia e per 15 volte lo hanno arrestato, chiuso in celle con altri 50, senz’acqua per giorni. Alla fine è riuscito ad arrivare al Pireo. E, dopo essere stato sorpreso tre volte dentro un camion alla frontiera e rispedito indietro, è finalmente sceso in Italia”.
Adesso hanno un lavoro e una famiglia.
Adesso Ali e Ismet hanno famiglia, hanno un lavoro, una vita regolare, chi ha aperto una pizzeria che da lavoro anche ai connazionali, chi ha fatto l’apprendista falegname per imparare un mestiere.
Ma i legami non si sono persi con chi gli ha dato una mano, aperto una porta quando erano soli.
“Passano, portano i figli, mi chiamano mamma. Ho avuto molto più di quello che ho dato in questi rapporti. Ho imparato. Per questo se ricapita non mi tiro indietro”.
Caterina Pasolini
(da “La Repubblica“)
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