IL CALO DEGLI ISCRITTI DEL PD? CONDIZIONE NECESSARIA A RENZI PER CONSOLIDARE SUA LEADERSHIP
I PROBLEMI SONO A LIVELLO LOCALE, DIRIGENTI DI DUBBIA FEDELTA’
Nei giorni scorsi il Pd ha ripreso a discutere sul calo degli iscritti. Calo preoccupante e drammatico, secondo l’opposizione interna al partito, di dimensioni limitate secondo i renziani.
In ogni caso, che la diminuzione vi sia stata è indubbio: quasi 800 mila iscritti con Veltroni segretario, un po’ meno di 500 mila con Bersani, solo 350 mila nel 2014. Sennonchè, nella discussione interna al Pd ma anche negli articoli che la stampa ha dedicato alla questione, mi pare non si sia messa ancora a fuoco la questione essenziale, sintetizzabile in una domanda.
Siamo davvero sicuri che per Renzi il calo degli iscritti costituisca un problema?
A Renzi infatti, che ha conquistato la segreteria del Pd grazie a primarie rivolte ai potenziali elettori, tutto ciò che rimanda al vecchio partito bersaniano di derivazione comunista, che misurava la sua forza sul numero degli iscritti e delle sezioni, risulta estraneo.
A caratterizzare il suo modo di governare, più che l’obiettivo sempre rimasto nel vago di un «partito della nazione» (che ancora presupporrebbe un’idea di partito strutturato in modo tradizionale, di tipo novecentesco per intenderci), è l’idea di una politica postpartitica fondata sul rapporto diretto tra il leader e i cittadini. In questo quadro, ogni struttura intermedia che si interpone nel rapporto – la Cgil, certo, ma anche il Pd inte so come «la ditta» bersaniana – risulta soprattutto di ostacolo.
Anche per Renzi, naturalmente, un partito serve; ma non è quello d’antan, che organizzava i dibattiti in sezione e orientava gli iscritti attraverso i meccanismi del centralismo democratico, bensì è il partito che, sul modello del Partito democratico americano, si mobilita in occasione delle elezioni per assicurare il successo del leader. È il rapporto con gli elettori, non con gli iscritti, che interessa Renzi.
Non da ultimo perchè è grazie agli elettori che ha ottenuto un notevole successo nel meccanismo di finanziamento attraverso il 2 per mille, con 550 mila persone che hanno dato la loro indicazione in favore del Pd.
Lo scarso interesse per il partito-di-iscritti è del resto rafforzato dalle tendenze cesaristiche che alcuni politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Biagio De Giovanni in un’intervista al Corriere del 24 novembre) attribuiscono al presidente del Consiglio.
Si dovrebbe semmai parlare, nel caso di Renzi, di un «cesarismo democratico», poichè le implicazioni autoritarie del cesarismo (da Giulio Cesare ai due Bonaparte) in questo caso sono evidentemente tenute a bada dal rispetto delle procedure democratiche.
Ma certo l’osservazione coglie un elemento reale: lo stesso uso che il premier intende fare del referendum sulla riforma costituzionale (referendum previsto dalla Carta come strumento nelle mani di chi si oppone alla riforma, non per confermare e accrescere il consenso nei confronti di chi l’ha realizzata, come lo concepisce invece il presidente del Consiglio) sembra giustificare appunto i timori di una deriva cesaristica o plebiscitaria
Del resto, un elemento populistico-plebiscitario è intrinseco alle democrazie contemporanee, anche se in Italia la presenza di partiti strutturati ha reso difficile riconoscerlo.
Quanto meno, fino alla comparsa di Berlusconi che, se rappresentava un’anomalia per tutto ciò che concerneva il conflitto di interessi, si collocava invece sulla scia di quella personalizzazione della politica, di quel rapporto diretto con gli elettori fondato sui media e in particolare sulla televisione, che rappresenta una caratteristica normale delle democrazie contemporanee.
Alla luce di tutto ciò, mi pare evidente che il calo di iscritti non costituisca particolare fonte di preoccupazione per Renzi, essendo addirittura – si potrebbe argomentare – una condizione necessaria al consolidamento del suo potere.
È un potere, come si sa, che diventa incerto a livello locale, dove spesso a contare sono dei leader di dubbia fedeltà al segretario del partito.
Ma questo è un problema che non credo Renzi possa pensare di affrontare riportando il Pd al modello bersaniano della «ditta» .
Giovanni Belardelli
(da “il Corriere della Sera“)
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