IL COLLEGIO DI GARANZIA DEL CONI HA SQUALIFICATO DENIS CONTE, ALLENATORE DEL PUGILE MICHELE BROILI, CHE COMBATTEVA ESIBENDO TATUAGGI NEONAZISTI
L’ALLENATORE DOVEVA DISSOCIARSI DALL’ATLETA O LASCIARE L’INCARICO…CONTE, FONDATORE DELLA PALESTRA “ARDITA TRIESTE”, È STATO SEGRETARIO CITTADINO DI FORZA NUOVA E CANDIDATO ALLE COMUNALI PER FRATELLI D’ITALIA
Di fronte all’orrore dell’apologia del nazismo non basta essere incolpevoli né si può rimanere indifferenti, ma occorre una pubblica dissociazione. Affermando un principio innovativo dal punto di vista giuridico e orientato in senso etico, il Collegio di garanzia del Coni (la Cassazione della giustizia sportiva) ha condannato definitivamente Denis Conte, allenatore del pugile Michele Broili che combatteva esibendo tatuaggi neonazisti: un’evocazione del Veneto Fronte Skinheads, la bandiera con le lettere SS in caratteri runici e il numero 88, richiamo segreto al saluto di Hitler.
Conte, ex pugile, fondatore della palestra Ardita Trieste, è stato segretario cittadino di Forza Nuova e candidato alle elezioni comunali per Fratelli d’Italia.
Un anno fa aveva difeso Broili come «esempio di correttezza», dicendo che «in palestra non facciamo politica». La Procura federale l’ha accusato «di non aver posto in essere alcuna attività affinché Broli, durante le operazioni di peso, visite mediche e successivamente durante l’incontro non esibisse in pubblico tatuaggi simbolo di inequivocabile evocazione nazista».
Poiché anche una condotta superficialmente omissiva può violare «i doveri di lealtà, rettitudine e correttezza sportiva, coordinati con la funzione sociale, educativa e culturale del pugilato», Conte avrebbe dovuto fare di tutto per impedire al pugile di «fare pubblico sfoggio dei tatuaggi inequivocabilmente neonazisti». E in caso di ostinato rifiuto avrebbe dovuto «rinunciare all’incarico professionale di tecnico». Conte si è difeso ricordando che il pugile aveva combattuto già quattro volte con i tatuaggi «senza suscitare contestazioni o proteste anche mediatiche».
E che in ogni caso, «a conferma dell’ineccepibilità del proprio operato», egli aveva chiesto e ricevuto assicurazioni da parte dell’ex presidente friulano della federazione «sull’insussistenza di divieti quanto ai tatuaggi». Il Collegio ha dato «una meditata risposta» a questi argomenti, smontandoli.
Quanto all’inesistenza di uno specifico divieto, spiega che in ogni caso su ogni tesserato incombe il dovere di difendere «il nucleo di valori e beni tutelati complessivamente dal sistema, ovvero lealtà e correttezza». Concetti non vuoti, ma adeguati «al sentire sociale». E un allenatore, come un maestro, deve farsi carico dei comportamenti degli atleti-allievi.
Nel caso specifico «è di immediata percezione che l’ostentazione di figure tatuate sul corpo dell’atleta offende il sentimento comune di assoluta, fermissima riprovazione di un periodo storico, dei suoi efferati interpreti, delle tragiche conseguenze causate nel tessuto sociale della collettività». Conte non può chiamarsi fuori perché «anche i tecnici sono chiamati a fornire il proprio contributo al conseguimento della funzione sociale, educativa e culturale dello sport.
Non è pensabile che si possa tollerare l’indifferenza rispetto anche alle condotte altrui che mettono in crisi tale sistema di valori: e la deprecabile indifferenza può certamente assumere la forma dell’inerzia o dell’insensibilità anche laddove le circostanze del caso proclamino l’esigenza di non lasciar mancare un intervento diretto a impedire o mitigare gli effetti negativi» della condotta di un atleta. Fino al punto di «abbandonare qualsiasi forma di collaborazione tecnica». Conte, del resto, «era consapevole dell’esistenza dei tatuaggi e la maturità frutto della lunga esperienza sportiva lo rendeva perfettamente in grado di comprenderne il profondo, ingiustificabile disvalore».
La rassicurazione informale ricevuta da un ex dirigente federale non vale a scagionarlo, anzi dimostra che «in lui dimorasse un dubbio sulla liceità dei tatuaggi». Ora sia Broili che Conte sono stati squalificati: l’atleta per 515 giorni, l’allenatore per 140. Ma il principio affermato in questa sentenza potrebbe trovare applicazione più vasta, rafforzando la responsabilità etica e sociale di chi svolge, in diversi campi, una funzione anche indirettamente educativa
(da agenzie)
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