IL DISCORSO D’ADDIO DI DI MAIO E’ UN LIVOROSO J’ACCUSE CONTRO “I TRADITORI”
AL FUNERAL PARTY NEANCHE UN’AUTOCRITICA (E PROMETTE GIA’ IL RITORNO)… QUANDO LA PRESUNZIONE NON HA CONFINI
È il passaggio di Luigi Di Maio all’età adulta. È quando dopo i quaranta minuti del discorso delle dimissioni si toglie simbolicamente la cravatta che sancisce la fine di un’era. Per quanto lo riguarda, almeno. Per il Movimento 5 stelle si vedrà .
Il ragazzo di Pomigliano arrivato in fretta e furia sulla sommità del Palazzo esce dal fortino, si libera dai sacchetti di sabbia quotidianamente portati dai suoi per difendere la trincea, e si butta nel mare aperto e incognito del confronto politico.
Nella centralissima piazza di Pietra a Roma, dentro al Tempio di Adriano, il pretesto che riunisce tutti i big pentastellati è la presentazione dei facilitatori regionali. È un segreto di Pulcinella. Tutti gli accorsi, ministri, staff, parlamentari plaudenti, stampa, sono lì per le dimissioni del capo.
La scenografia è quella ormai consueta per i 5 stelle, linee semplici, colori netti, slogan d’ordinanza e il solito tentativo neolinguista, tra “facilitatori” e “team del futuro”.
Il dimissionario arriva un’ora dopo. Lima fino all’ultimo il discorso: “Per la sua importanza ho deciso di leggerlo. Ci ho iniziato a lavorare un mese fa”.
Un parlamentare ridacchia: “Ma se praticamente l’ha costretto Grillo”.
L’attesa è ingannata da un simpatico video che racconta gli altri partiti in una dinamica tra capi-latifondisti e militanti-mezzadri e i 5 stelle quali giardinieri, e vabbè.
Si alternano sul palco alcuni membri della segreteria, da Paola Taverna a Enrica Sabatini. Emilio Carelli in veste di presentatore non si nasconde dietro un dito, parla chiaramente del passo indietro.
Quasi immediatamente tutto si trasforma in una sorta di funeral party, con una salva di applausi alla memoria.
“Guardali — commenta un uomo vicino al ministro degli Esteri — Sono tutti contenti. Ora applaudono, poi vorranno un selfie. Sepolcri imbiancati”.
“Ho portato a termine il mio compito”, esordisce Di Maio. Una scelta sofferta, una voce che trema. Davide Casaleggio è a Roma dalla sera prima. Con il figlio del fondatore l’ultimo brainstorming. I ministri sono in seconda fila, accanto a Vito Crimi, che assumerà la reggenza a interim. “Non è finito qualcosa, è appena cominciato”, un tasto sul quale il capo politico uscente batte spesso, quasi per autoconvincersi.
Ha confermato domenica la scelta a Giuseppe Conte, a Berlino, durante un lungo faccia a faccia. Entrambi all’unisono dicono che non ci saranno ripercussioni nel governo. Dentro il Movimento, al contrario, le ripercussioni sono imponderabili.
Di Maio non pronuncia una parola sul perchè del gesto, se non legandolo flebilmente alla conclusione del percorso di riorganizzazione. Non c’è accenno all’autocritica.
Non una parola sulle accuse di cesarismo che lo hanno sfibrato al punto di arrivare alle dimissioni. A un certo punto il giovane diventato in fretta adulto prende coraggio. La voce tremolante si fa stentorea.
Il discorso prende una piega quasi livorosa. “I peggiori nemici li abbiamo all’interno”, attacca. Non è un sassolino fuori dalle scarpe, è una pietraia che rotola in sala, a quanto pare su nessuno dei presenti, che si spellano le mani.
“C’è chi non lavora per il gruppo, ma per la propria visibilità . Tante battaglie le abbiamo perse per le fughe di notizie. Ci sono sempre state divisioni su ogni argomento, anche su quelli definiti chiaramente nel programma. Farci apparire litigiosi e pasticcioni è stato il miglior modo di combatterci. E alcuni si sono prestati a questo gioco, per profonda immaturità personale e politica. Così il rumore di pochi ha sovrastato il lavoro di tanti”.
È un vero e proprio martellamento. Che sembra non finire mai: “C’è chi è sempre stato nelle retrovie, e è venuto al fronte solo per pugnalare alle spalle. C’è chi ha sempre messo il Movimento davanti a se stesso, e chi ha fatto l’opposto. Ho visto nostri eletti nei collegi uninominali, e quindi calati dall’alto, chiedere che le regole non fossero calate dall’alto; nemmeno il pudore hanno”.
È uno stillicidio, un j’accuse profondo e destinato a non rimanere senza conseguenze. Emanuele Dessì, tra i grandi contestatori, osserva in silenzio sul lato destro del palco. A marzo si terrà un vero e proprio congresso fondativo della terza fase dei 5 stelle. Che dopo il carisma fondativo di Beppe Grillo oggi mette fine alla stagione del capo politico che li ha portati al governo.
Di Maio ringrazia Conte, ringrazia i due co-fondatori. Conclude togliendosi la cravatta, outfit che ne ha contraddistinto tutte le uscite pubbliche sin dal 2013, come gesto simbolico di addio.
C’è tutto lo staff del premier. Rocco Casalino segue il discorso accanto ad Augusto Rubei, il braccio destro e sinistro del ministro degli Esteri. Entrambi mentre l’ex leader si slaccia il nodo e partono le note di una musica di sottofondo hanno gli occhi lucidi. Così come Stefano Patuanelli, il ministro dello Sviluppo economico tra i più accreditati alla successione.
“Le regole non si cambiano con le interviste, ma con gli Stati generali”, dice Di Maio, aggiungendo che in quell’occasione, a metà marzo, si deciderà il come, non il chi.
Non una parola di più. Il modello del capo politico solitario potrebbe sgretolarsi e cambiare forma. Ci potrebbe essere una diarchia, un Gran consiglio. Potrebbe rimanere tutto com’è. L’uovo di Colombo lo scodella un importante parlamentare a lui vicinissimo: “Ci sono tutte le condizioni affinchè Luigi torni alla guida agli Stati generali”. Terra incognita, si diceva. Forse non poi così tanto.
(da “Huffingtonpost”)
Leave a Reply