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IL FALEGNAME CHE SCONFIGGE LA GLOBALIZZAZIONE: LA STORIA DEL MANTOVANO PAOLO PONTI E DEL MOBILIFICIO SENZA BUROCRAZIA

VIA IL MARCHIO, PREZZI BASSI: “COPIO I CINESI, NON DIVENTERO’ MAI UN FORNITORE IKEA PER NON FARMI SPREMERE”

La notizia, se vogliamo, è che un falegname può battere la globalizzazione.
E per reggere l’urto della crisi non deve diventare per forza un fornitore Ikea. Anzi.
Se il falegname ha le idee chiare non c’è ostacolo che possa impedirgli di costruire bei mobili, di venderli a un prezzo contenuto, di realizzare margini di profitto per mandare avanti un’azienda moderna/snella e dare così ogni mese lo stipendio a una trentina di dipendenti.
L’esempio vivente e vincente è Paolo Ponti, un (mite) mantovano nato nel 1971, nipote e figlio di falegnami, che ha studiato architettura a Firenze.
Suo bisnonno era un ortolano di San Giacomo Po mentre il primo lavoro di falegnameria di suo nonno Walter fu una capanna a due ruote necessaria perchè quando il fiume cresceva portava via tutto.
Pur avendo bazzicato nell’aziendina di famiglia da quando aveva i calzoni corti, Paolo dopo la laurea non era così convinto di rientrare a Mantova e darsi alla falegnameria. Pensava di mettere a frutto gli studi fiorentini, l’amore per Leon Battista Alberti e il Brunelleschi e costruire edifici, chissà  dove e magari assieme alla compagna di corso Daniela che ha sposato un anno dopo la laurea.
A dargli la spinta decisiva per tornare a casa è stata quella che nei manuali di management chiamano responsabilità  sociale ma spesso non sanno bene cosa sia, un senso di appartenenza profondo alla piccola comunità  rappresentata dalla gente di San Giacomo e dai suoi dipendenti.
«Mi chiedevo: se io smetto che faranno quando mio padre lascerà  il campo? Non sono certo rientrato a Mantova per diventar ricco. I soldi vanno fatti, ma il giusto. In fondo, mi sono detto, meglio il falegname che costruire villette rovinando le periferie e consumando territorio».
Nella storia delle aziende familiari si ricama sempre attorno alla staffetta tra il padre e il figlio, il piccolo gossip di paese in questi casi impazza.
Alla Ponti le cose sono andate pressappoco così: Paolo ha detto al padre Ermes che sarebbe rientrato a una condizione, «comando io».
Così è andata e oltre a cambiare timoniere l’azienda ha scelto quasi subito di applicare un altro gioco.
Di cambiare paradigma. «Non ci crederete ma ho copiato i cinesi. Ero da loro e li ho visti far mobili. Applicavano un’organizzazione semplice, zero gerarchie e zero burocrazia. E ho pensato che anche noi a Mantova dovevamo far così. Era inutile comprare software gestionale o altre diavolerie, dovevamo mettere in connessione la testa e le mani dei nostri dipendenti. E avremmo vinto».
Tradotto in slogan, dal vendere mobili come pure faceva con un certo successo papà  Ermes bisognava passare a risolvere i problemi dei clienti ma con un’organizzazione aziendale piatta, il minimo possibile di strutture e il massimo possibile di fantasia.
Non c’è un mobile Ponti uguale all’altro.
E visto che notoriamente la fortuna aiuta gli audaci, l’avvento al timone di Paolo è coinciso con una commessa importante: la Corneliani, uno dei grandi dell’abbigliamento di qualità , aveva deciso di aprire uno showroom a Parigi e per progettarlo bussò a casa Ponti.
Paolo la sua prima libreria l’ha progettata ai tempi del liceo, la chiamarono Sintagma, era modulare e infinita (una Billy ante litteram?) e fu adottata dal Festivaletteratura di Mantova.
Il più giovane dei Ponti sostiene che per progettare mobili e interni le tecnologie Cad non servono o meglio non sono decisive.
Sono utili per fare verifiche ma guai a vederle come un oracolo.
Detto da un altro la demolizione del mito del Cad assomiglierebbe a una guasconata, ascoltata da lui convince l’interlocutore. «La nostra generazione ha iniziato l’università  disegnando a mano con riga e squadra e ne è uscita usando Apple ma l’intelligenza del collegamento pensiero-mano è insuperabile».
Il falegname nel Ponti-pensiero è di conseguenza una figura leonardesca, sospesa tra antico e moderno, tra Rinascimento e globalizzazione. «I progettisti di interni non conoscono i materiali e c’è bisogno dunque che le persone lavorino assieme.
Prima da noi i falegnami avevano persino paura di entrare in ufficio, oggi si muovono a loro agio e non stanno ad aspettare che arrivi la scheda dal tecnico».
In azienda c’è solo una porta che divide lo studio dal laboratorio, è considerata la caratteristica che li rende diversi da tutti gli altri e quindi tutto resterà  così anche in futuro.
A San Giacomo Po nasce dunque un esperimento che quasi crea una nuova figura professionale, il «falegname evoluto» come lo chiama Paolo, un esempio di quella ricomposizione tra lavoro manuale e intellettuale che i sindacalisti di ogni epoca hanno sempre sostenuto senza vederla mai realizzata.
Sul piano del business i Ponti puntano sulla specializzazione produttiva tipica dei distretti e della migliore tradizione del made in Italy ma la realizzano a modo loro: la ricerca della qualità  non li autorizza ad alzare il prezzo più che si può, come fanno gli altri.
Il loro è un prodotto di tradizione artigianale e italiana veramente «democratico» e quella di San Giacomo Po alla fine è una boutique del mobile che si propone esplicitamente di fare prezzi concorrenziali con quelli dei cinesi.
Roba da non crederci. «Ma io non servo i super-ricchi, la mia clientela la pesco nella media borghesia».
Nel suo revisionismo dei canoni del business dell’arredamento di successo Paolo ha persino rinunciato al brand, una mossa che gli strateghi del marketing considereranno suicida ma lui ha deciso che investire sul marchio sarebbe costato troppo, l’avrebbe costretto a distrarre risorse e alla fine avrebbe fatto della piccola Ponti un’azienda «troppo commerciale».
Meglio investire sulla formazione e crearsi in casa i «falegnami evoluti» di domani.
Ci vogliono 5-6 anni perchè un giovane diventi veramente pratico del mestiere e aziendalmente profittevole ma Paolo non ha fretta, può aspettarne la maturazione.
«Un tempo – racconta – era facile reclutare operai. D’estate, finita la scuola, per tre mesi i ragazzi andavano a lavorare, poi c’era chi restava. Adesso dobbiamo cercarli sperando che abbiano voglia di imparare».
I Corneliani nella storia della nuova Ponti sono stati importantissimi.
Il primo cliente non si scorda mai. E tramite un loro agente Paolo ha potuto lavorare nientemeno che in Kazakistan realizzando negozi e grandi magazzini.
Poi è stata importante anche la nautica, Paolo e Daniela se ne sono innamorati e si sono fatti contaminare da quella cultura produttiva.
Realizzare mobili per yacht è una sfida professionale come poche, «le barche impongono limiti precisi e le misure sono particolari, gli arredi non possono essere realizzati in serie e sono differenti legni e finiture».
La Ponti del 2012 è una piccola azienda che cresce nonostante la crisi ma alla fin fine fattura 4 miliardi. Paolo pensa che sarebbe bene raddoppiare il giro d’affari ma se l’intervistatore gli chiede perchè non diventa un fornitore Ikea la risposta è secca.
«No, grazie. Gli svedesi usano le aziende italiane come limoni. Le spremono e poi le buttano».

Dario Di Vico
(da “Il Corriere della Sera”)

This entry was posted on mercoledì, Luglio 4th, 2012 at 22:57 and is filed under Lavoro. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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