IL GOVERNO COLPISCE LE PERIFERIE PERCHE’ LA PAURA HA BISOGNO DELLE DISEGUAGLIANZE
DUE MILIARDI DI FONDI CONGELATI DA LEGA E M5S CHE AVREBBERO RIQUALIFICATO AREE DIMENTICATE DEL NOSTRO PAESE… LA CITTA’ DEI RICCHI, LA CITTA’ DEI POVERI E LA GUERRA TRA POVERI
Il governo gialloverde congela i fondi previsti dal Bando periferie, una cifra di oltre due miliardi di euro destinata alla riqualificazione delle aree più in difficoltà delle città del nostro Paese.
Lega e 5Stelle si difendono asserendo che in realtà quei fondi saranno redistribuiti tra tutti i comuni, e non solo tra i circa cento che partecipavano al progetto, ma poco cambia: sostenere gli enti locali significherebbe trovare nuovi fondi, non distrarli da un obiettivo specifico come quello della riqualificazione.
Per aiutare il nostro sistema urbano sarebbe necessario costruire una politica organica per le città : con leggi coraggiose contro la rendita e per l’accesso alla casa, con investimenti seri sul ferro e sui trasporti locali, con norme stringenti sull’uso degli spazi ed i processi di rigenerazione, con una riforma amministrativa che riscriva la funzione partecipativa e decisionale dei cittadini, istituzionalizzando e favorendo lo strumento dei patti di collaborazione.
Il governo del cambiamento invece non cambia, ma arretra nell’impostazione culturale e nella pratica amministrativa, e continua sulla scia ideologica della peggiore destra conservatrice degli ultimi anni, da Reagan alla Thatcher, da Berlusconi a Trump.
Ma d’altronde era già tutto scritto nel cosiddetto contratto di governo: la criminalizzazione della povertà , più carceri, meno solidarietà , la segregazione razziale e residenziale, non erano e non sono solo atti di propaganda, ma elementi organici di un progetto complessivo di disuguaglianza e fratturazione sociale che Salvini, Casaleggio e la maschera Conte servono ed eseguono in maniera pedissequa.
Le sedicenti destre italiane e globali hanno infatti colto e interpretato prima e meglio di tutti l’evoluzione del sistema politico ed economico imposta dalla globalizzazione ruvida di questo inizio millennio: gli Stati nazionali, così come li abbiamo conosciuti nel secolo scorso, perdono sempre maggiormente peso, forma, sostanza.
Ed è nell’altrove e nel qui il luogo dove maturano le decisioni e si formano le culture che generano – o che confliggono – con quelle decisioni stesse: nella dimensione internazionale, dove agiscono i rapporti tra le macro-aree e l’economia finanziaria; ed in quella urbana, dove si creano gli orientamenti politici e sociali, le innovazioni, le paure, gli standard dei consumi, i modelli antropologici.
Questo fenomeno è oggi ampiamente chiaro alla destra cosiddetta sovranista: da una parte il Fronte dei Popoli immaginato dal leader della Lega, l’asse in chiave anti-europea con Putin ed i paesi di Visegrad; dall’altra il soffiare sul fuoco delle paure – vere o immaginarie – urbane, per alimentare o controllare il consenso, con la tolleranza zero, la securizzazione, la criminalizzazione della marginalità , la segregazione spaziale.
Ed è in quest’ottica che le disuguaglianze spaziali delle nostre città , le periferie fisiche e quelle sociali, divengono determinanti: con la duplice funzione di alimentare un sistema economico e politico sempre più immateriale nelle decisioni e sempre più materiale nelle ricadute e negli effetti di quelle decisioni; e di generare, conservare, moltiplicare un immenso bacino di consumi, paure, consensi elettorali.
La frase che più spesso segue il “non sono razzista ma” così in voga di questi tempi, non a caso è “ma ci sono interi quartieri dove lo Stato è assente, c’è insicurezza, c’è illegalità “.
Associando questa assenza, questa insicurezza, questa illegalità , ora ai migranti, ora ai rom, ora al sottoproletariato (ma non troppo, quello comunque vota).
Come se tutto ciò — e cioè la presenza di zone franche all’interno dei nostri contesti urbani ed il contestuale clima di degrado, timore, abbandono – fosse frutto del caso o di un processo naturale, e non invece la diretta conseguenza di una precisa dinamica che consciamente decide di dividere le città in due parti: che, come annunciava già Platone qualche millennio fa, sono quella dei ricchi e quella dei poveri.
Quella dei ricchi, pulita, sicura, abbellita, ordinata, la città vetrina che si espone ai media e che attira i flussi di investimenti e di turisti, con i corsi principali ed i centri storici sempre più uguali e simili ad una Disneyland urbana.
E quella dei poveri, disconnessa dai flussi, separata dall’altra da barriere visibili ed invisibili, e nella quale costa troppo garantire diritti, sicurezza, trasporti, politiche sociali, interventi di decoro urbano: la parte della città dove dunque tutte le marginalità espulse dalla città dei ricchi sono relegate, e non solo tollerate, ma anche spesso incoraggiate a confluirvi.
Perchè in quella illegalità diffusa e in quel pezzo di economia sommerso risiede uno dei perni sui quali si regge — economicamente e politicamente — chi detiene il potere nella città dei ricchi, che è potere globale, relazionale, conoscitivo, finanziario. Dinanzi a tutto questo la paura del diverso, i porti chiusi, le ruspe, la colpevolizzazione della povertà , delle minoranze, della razza, della religione, del conflitto, sono elementi propagandistici ed ideologici necessari ad alimentare la guerra tra poveri nella città dei poveri, e la speculare paura verso di essi tra i meno forti della città nei ricchi: affinchè nessuno pensi di coalizzarsi per chiedere uguaglianza e redistribuzione, affinchè nessuno pensi — come accaduto in questi giorni con i migranti a Foggia — che il tema siano la terra e il lavoro per tutti, e non la chiusura in mura di cristallo sempre più ingannevoli.
Per questo il gioco delle dichiarazioni, delle smentite, delle provocazioni e dei distinguo nell’ambito del governo è un enorme macchina di distrazione di massa, uno specchietto per le allodole che vive della velocità del tritacarne mediatico e della scarsa memoria dell’opinione pubblica.
E per questo la retorica delle competenze contrapposta a questo governo suona troppo come il rancore degli Dei per aver perso il monopolio del fuoco: ma non costituisce alternativa, solo semmai la rappresentazione più educata e forbita dello stesso schema, dello stesso impianto, degli stessi obiettivi.
Populismo e tecnocrazia hanno d’altronde questo in comune: servire le èlite, essere antitetici alla democrazia.
Occorre per questo un fuoco nuovo, un’azione prometeica collettiva, che sia di tutti e per tutti, che torni ad illuminare ed unire le tante battaglie urbane che si oppongono qui alla mercificazione dell’urbano e nell’altrove a un sistema capitalistico dalle caratteristiche sempre più predatorie: servono scintille, da contrapporre al buio delle false stelle.
(da “Huffingtonpost“)
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