IL PATTO DEL NAZARENO PER ORA REGGE: APPUNTAMENTO ALLA QUINTA VOTAZIONE
AL DI LA’ DELLE SCARAMUCCE, IL PATTO TIENE, MA LA VERIFICA CI SARA’ SUL PALLOTTOLIERE AL MOMENTO DECISIVO
Sarà stato il clima informale del brindisi, al termine della cerimonia ufficiale, ma al Quirinale in molti hanno colto la risata composta di alcuni ospiti, tra i quali spiccava il presidente dei Democratici, Orfini.
D’altronde, dopo aver sentito Napolitano blindare il governo, condannare le voci su un ritorno alle urne e sulla scissione del Pd, e persino bacchettare la minoranza dem per i voti in dissenso espressi alla Camera sulle riforme istituzionali, la battuta è salita spontanea, come il perlage dello spumante: «Vorrà dire che la prossima volta lo inviteremo in direzione…».
Forse quell’attimo di contenuta allegria era anche un modo per esorcizzare la vigilia della corsa al Colle, che rischia di trasformarsi in una battaglia senza regole e senza rete. Perchè il timore diffuso, avvertito ieri al Quirinale, è che la voce del capo dello Stato – visto l’approssimarsi del suo addio – non riesca a far più presa, che la sua moral suasion non incida sui processi politici, che i suoi suggerimenti non vengano seguiti dai protagonisti della sfida.
Toccherà a Renzi tracciare il percorso, e servirà del tempo per vedere la luce in fondo al tunnel.
La priorità per ora sta nei numeri, e il braccio destro del premier, Lotti, aggiorna quotidianamente il suo pallottoliere, dove tiene da conto le forze ostili prima ancora che quelle alleate.
Nelle stime del sottosegretario alla presidenza del Consiglio si oscilla al momento tra i quaranta e gli ottanta franchi tiratori nel Pd e una cinquantina tra le file di Forza Italia.
Già , perchè, al riparo delle scaramucce di frontiera tra Renzi e Berlusconi, «il patto del Nazareno – come spiega un ministro democrat – regge», benedetto anche da Napolitano, che ieri non a caso ha esortato al «senso di responsabilità nazionale» quelle forze di opposizione «già dimostratesi positivamente disponibili» al processo delle riforme. Il premier si mostra convinto che il Cavaliere non verrà meno all’impegno, «dirà sì anche alla legge elettorale per non restare fuori dai giochi».
Nei «giochi» ovviamente – come riconoscono nel Pd – è incluso l’accordo sul Quirinale, «è questione di buon senso».
Ed è soprattutto una questione strategica per Renzi, che non può nè vuole avviare altri giochi, nonostante faccia finta di minacciarli.
Come ha spiegato nelle riunioni riservate, il leader democrat non coltiva l’idea di aprire a Grillo o a Salvini, il primo «perchè ha interesse a vedere fallire il sistema politico», il secondo perchè «più che a un accordo pensa a come farci un trabocchetto».
La corsa al Quirinale del ’92 insegna: fu Bossi a far saltare il banco della prima Repubblica, allettando Andreotti e bloccando così l’elezione di Forlani.
Ce n’è traccia nelle memorie dell’ex presidente della Camera, Violante: «Ricordo che in quei giorni era in Italia una delegazione slovena, intenzionata a incontrare Andreotti. Lo chiamai, mi disse che stava andando alla riunione dei gruppi democristiani, dove all’unanimità si sarebbe decisa la candidatura di Forlani alla presidenza della Repubblica. Gli chiesi allora quando avrebbe potuto fissare l’appuntamento. Mi rispose: “Dopo la prima, o la seconda, o la terza votazione…”».
«Il sistema allora cadde sul Quirinale», commentava ieri Bossi in Transatlantico: «Stavolta però rischia di cadere per la crisi economica. Anche se io spero che cada solo Renzi».
Chiamato a difendersi nella doppia trincea, quella di Bruxelles e quella di Roma, il premier intanto prova a bonificare il sentiero della corsa al Colle: la prima mina, la più insidiosa, era Prodi.
Perciò ha giocato d’anticipo, per evitare che – in caso di stallo durante le votazioni – il nome del fondatore dell’Ulivo venga lanciato dai suoi avversari di partito, consapevole com’è che l’area dei fittiani sarebbe pronta a votare il Professore a scrutinio segreto per giocargli contro.
Non c’è sfida per il Quirinale senza insidie, solo che stavolta – secondo le confidenze fatte da Casini ad alcuni amici – sono «amplificate dalla scomposizione delle forze parlamentari».
E sarà pur vero ciò che sostiene il democrat Rosato, e cioè che «rispetto a un anno e mezzo fa il Pd ora ha una guida», che «i nostri gruppi, tranne una quarantina di pasdaran, sono compatti».
Ma ci sarà un motivo se le analogie con il ’92 condiscono le discussioni dei dirigenti democrat.
L’antidoto sta nella tenuta del patto con Berlusconi e nella triangolazione dell’accordo con Alfano, con i suoi settanta e passa grandi elettori, da cui Lotti toglie sempre una decina di fedelissimi casiniani…
«Il patto regge», ripetono in modo quasi scaramantico da palazzo Chigi.
L’appuntamento sarà per la quinta votazione, dopo uno scrutinio di prova che servirà a verificare la tenuta dell’accordo nell’urna. Se così non fosse, per Renzi (ma non solo per lui) si spalancherebbero le porte dell’Ade, e su quella soglia – così lo romanza un autorevole ministro del Pd – il Parlamento si troverebbe costretto a scegliere «tra un artista di caratura internazionale o un commissario della finanza internazionale».
La percentuale di rischio non è bassa, dato che queste sono le stesse Camere che dovettero chiedere all’attuale presidente di restare al Quirinale.
E come rivela uno dei maggiorenti democrat, «se Napolitano si fosse rifiutato, avremmo dovuto cedere su Rodotà ».
Melli e Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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