IL VERO SCONTRO ELETTORALE E’ TRA MELONI E SALVINI
QUANTO PIÙ SARÀ MAGRA LA PERCENTUALE DELLA LEGA (10%, SE NON MENO) PIÙ SALVINI AVRÀ SCARSI MARGINI PER DESTABILIZZARE
La visita veloce e imprevista di Enrico Letta al cancelliere tedesco Scholz contiene un messaggio trasparente. Dimostrare all’elettorato, quando mancano sei giorni al voto, che il segretario del Pd è l’uomo dai contatti giusti in Europa, in grado di trovare porte aperte a Berlino e a Parigi. Non come Giorgia Meloni, amica di Orbán e dei polacchi, leader del gruppo dei Conservatori, all’opposizione dell’Unione governata da democristiani e socialisti, nonché ben rappresentata dai “macroniani”: sotto molti aspetti i più dinamici, anche se Letta non ne apprezza l’eccessiva vicinanza con Renzi.
In poche parole, il segretario del Pd ha giocato la carta dell’autorevolezza sul palcoscenico europeo, dove in effetti si muove con disinvoltura. Tant’ è che in Germania ha agito un po’ da presidente del Consiglio in pectore , a suo agio nel discutere di prezzo del gas e di Ucraina. Come dire che ha scelto di ignorare sia i sondaggi sia le voci rassegnate, soprattutto quelle del suo partito, per tentare la via della rimonta finale.
Che essa sia verosimile o no, conta fino a un certo punto: vale di più l’intenzione di battersi fino all’ultimo in cerca della grande sorpresa (e non sarebbe la prima volta nella storia). Ora, è vero che l’Europa è il terreno su cui il Pd, muovendosi nel solco della tradizione, si sente forte. Al contrario, Giorgia Meloni e naturalmente Salvini seguono un’altra rotta, ostile alla cornice dell’europeismo ortodosso, quello per cui il diritto comunitario tende a prevalere sul diritto nazionale. Ed è proprio su questa base che è stato condannato Orbán con il voto contrario di FdI e Lega.
Si sono lette interessanti analisi sui motivi di tale scelta, non del tutto chiari quando si pensa che la leader di FdI avrebbe interesse a non entrare in urto con le capitali che contano e con la Commissione Von der Leyden. Si è scritto che Meloni ha mostrato la sua vera identità, in sintonia con un sistema di “autocrazia elettorale”, qual è l’Ungheria, anziché con i modelli della democrazia liberale. Tuttavia esistono anche delle spiegazioni prosaiche, connesse con la tipica “politica politicante” di chi comincia a guardare oltre il 25 settembre.
Qual è allora il principale problema della probabile vincitrice di domenica? Si chiama Matteo Salvini, poco propenso ad accettare la leadership meloniana e di cui si prevedono bizze a non finire. Tenere sotto controllo il capo della Lega, e sottrargli quanti più voti è possibile, è dunque l’imperativo della rivale, consapevole di una banale equazione: quanto più sarà magra la percentuale del Carroccio (intorno al 10, se non meno) tanto più Salvini avrà scarsi margini per destabilizzare.
Al di sotto di una certa soglia, persino i cauti marescialli leghisti potrebbero trovare il coraggio di fare i conti con il capo. E Giorgia Meloni sa, come tanti, che gli Stati Uniti non gradiscono affatto vedere l’amico di Putin al governo, magari in ruoli di primo piano. Questo spiega la volontà meloniana di sovrapporsi a Salvini sul terreno del “sovranismo” per tagliargli l’erba sotto i piedi, a costo di rischiare strappi con l’Unione.
Del resto, Orbán è inviso all’Europa ma molto meno a Washington. E la linea di Giorgia Meloni è poco europeista e molto atlantista, quindi filo-americana (sia pure “trumpiana” più che democratica). Salvini invece non ha alcuna sponda in America e si è reso conto d’esser stato spinto nell’angolo. Ieri ha ricevuto un messaggio – forse sollecitato – dalla sua amica Marine Le Pen: un tentativo di far sapere che non tutto il patrimonio della destra europea è andato a Giorgia Meloni. La quale, peraltro, continua a rifiutare una politica economica fatta di maggiori debiti, come invece vogliono all’unisono Salvini e Conte. Segno che su questo punto cruciale la leader di FdI è attenta a non entrare in collisione con l’Unione. Cioè con Draghi.
(da La Repubblica)
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