IN EUROPA HANNO CAPITO CHE LUSINGARE IL TYCOON NON SERVE A UN CAZZO, MOLTI COMINCIANO A DIRE ‘NO, GRAZIE’
L’INCIPIENTE FRONTE INTERNAZIONALE DEL NO A TRUMP HA DECISO DI NON ASSOGGETTARSI SUPINAMENTE AI DETTATI ESTEMPORANEI EMANATI DALLA CASA BIANCA… IL NO PIÙ IMPORTANTE VIENE, IN EUROPA, DALLA FORMAZIONE DELLA ‘COALIZIONE DEI VOLENTEROSI’ RIUNITA FATICOSAMENTE DA STARMER”. E LA CAMALEONTE MELONI CHE POSIZIONE PRENDERA’?
Che fare con Donald Trump? Con chi crede nella “paura” come “vero potere”, come disse a Bob Woodard nel lontano 2016. Non ha cambiato idea. L’America alza le braccia – per ora. Il resto del mondo non se lo può permettere. Se lo domandano gli Houthi a Sanaa come i groenlandesi a Nuuk. Gli uni per i mezzi persuasivi usati dal Presidente americano; i secondi per scelta esistenziale.
Casi estremi, ma non c’è politica estera, e/o commerciale, al mondo che non sia condizionata dal “cosa fare con Trump”. Lo sono soprattutto gli alleati ed amici, presi di mira ben più degli avversari, forse perché nella logica della paura è di metterla agli amici. I nemici l’hanno già. Quindi alle prime minacce, dazi, solo poi dialogo sotto una pistola puntata.
Cosa fare? Lusingare non basta. Fare concessioni incoraggia a chiedere di più. “No, grazie”? Molti cominciano a dirlo. Educatamente. Fermamente (Canada). L’incipiente fronte internazionale del no a Donald Trump non nasce “contro” il Presidente americano.
Mantiene una visione di alleanza e partnership con gli Stati Uniti. Si limita a non fare, o a non fare esattamente, quello che egli vorrebbe imporre alla comunità internazionale.
La strategia consiste nel non assoggettarsi supinamente ai dettati spesso estemporanei emanati dalla Casa Bianca o da Mar-a-Lago.
Quando non c’è alternativa, vedi dazi, nel rispondere pan per focaccia ma non per fare escalation bensì per trovare una soluzione reciprocamente accettabile, dando prova di forza per guadagnare rispetto come nelle famose strette di mano di Macron.
A due mesi scarsi di presidenza, Trump ha sovvertito le direttrici tradizionali della politica estera americana. Finora principalmente in tre direzioni – il sipario sulla quarta, dazi a 360 gradi, si aprirà completamente il 2 aprile: espansione territoriale degli Usa nell’emisfero occidentale; retrocessione dell’Ucraina di Volodymir Zelensky rispetto alla Russia di Vladimir Putin per mettere fine alla guerra; cocktail mediorientale, contrassegnato dalla proposta di fare Gaza la “Riviera del Medio Oriente”, lasciando carta bianca a Netanyahu in Cisgiordania, con segnali misti all’Iran e, da ultimo, con l’intervento militare più ultimatum sia agli Houthi che a Teheran.
Come reagiscono le controparti? Il Medio Oriente è in attesa. L’ultimatum americano agli Houthi può finalmente porre fine alla minaccia alla navigazione nel Mar Rosso. Se Trump mette l’Iran, già degradato da Israele e boccheggiante economicamente, con le spalle al muro non ci saranno molte lacrime arabe (o israeliane) versate
Ma l’Arabia Saudita continua a subordinare la piena normalizzazione con Israele a un orizzonte di Stato palestinese: mezzo no. Egitto e Giordania, pur con Re Abdullah II ricevuto all’Ufficio Ovale, hanno inequivocabilmente detto no alla Riviera Gaza di Trump. No, poi indirettamente corroborato dal piano della Lega Araba che l’Italia appoggia.
Sull’Ucraina, il primo no a Trump è stato quello di Zelensky, coraggioso quanto pubblicamente umiliato alla Casa Bianca: no a una pace senza garanzie internazionali. Il Presidente ucraino lo pagherà forse caro ma ha costretto Washington al negoziato bilaterale di Gedda culminato nella pendente proposta di tregua di trenta giorni.
Che, pur sicuramente costata a Kiev pesanti concessioni, nasce da un’idea franco-britannica e sta bene agli ucraini. Di conseguenza, il secondo no a Trump arriva da Putin. Mascherato come “sì ma” che, nei manuali diplomatici, è la formula classica per dissentire.
All’Onu o alla Nato, insegnano a tremare quando un discorso inizia con “sono pienamente d’accordo ma”…..Donald Trump tende a non riconoscere un no quando se lo sente dire. Si rifugia nel “costruttivo”. Questa settimana probabilmente ne parlerà con Putin. Farà poi pressioni sul Presidente russo per accettare la tregua senza condizioni o su Zelensky per accettare le condizioni richieste da Putin? O annuncerà un vertice bilaterale russo-americano? Con l’espansione territoriale Donald Trump vuole veramente passare alla storia.
L’ultima annessione (Samoa americane) risale al 1900; il confine col Canada fu fissato in un Trattato del 1908, menzionato casualmente da Trump in una telefonata a Justin Trudeau. Niente di casuale nella pioggia di netti no ricevuti: del nuovo Primo Ministro canadese, Mark Carney; dei canadesi, in preda a un’impennata di patriottismo; della Primo Ministro danese, Mette Frederiksen; dei groenlandesi che hanno votato per il partito più favorevole allo status quo.
A Trump non rimane che prendersela con l’anello più debole delle sue richieste, Panama, che pur gli ha fatto immediate concessioni. Per ora.
Il no più importante – a parte quello fondamentale dei marcati e dell’invisibile mano – viene, in Europa, dalla formazione della “coalizione dei volenterosi” riunita faticosamente da Keir Starmer sabato scorso, in un improbabile formato di europei, compresa Turchia, Australia, Canada, Nuova Zelanda, più Nato e Ue.
Non sappiamo cosa ne uscirà fuori, se riuscirà a garantire il futuro indipendente ed europeo dell’Ucraina. Ma prende atto che in Europa – e nel mondo – c’è oggi un vuoto di sicurezza e di ordine internazionale da colmare. Che la causa è l’America di Donald Trump che, per essere “prima”, è pronta a mettersi contro tutti. La fiducia in Trump di Giorgia Meloni è giusta per far politica estera, ma merce rara sul mercato europeo e internazionale.
(da La Stampa)
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