JOE BIDEN, IL RADICALE
LO SI GIUDICAVA UN “VECCHIO E LOGORO” PROFESSIONISTA, SI STA DIMOSTRANDO TUTT’ALTRO
Alle elezioni, pochi ritenevano che Joe Biden sarebbe stato un presidente incisivo in grado di condurre un’attiva politica riformatrice. Lo si giudicava un “vecchio e logoro” professionista, prescelto come male minore per convogliare un elettorato tradizionale e nero sul candidato in grado di battere Trump.
E, invece, Biden si sta dimostrando tutt’altro: un “presidente radicale” nel significato politico che dell’aggettivo si dà in Europa. Non un verboso radical americano, pronto a enunciare a parole progetti rivoluzionanti, e neppure un tranquillo liberal soddisfatto di smussare i più controversi aspetti degli Stati Uniti.
Alla prova dei fatti, la direzione di marcia del nuovo presidente è tipica del riformatore democratico radicale pronto ad affrontare i nodi più controversi della società americana senza la prudenza tipica dei precedenti. Se non quella dell’equilibrio dei poteri in presenza di un Congresso per metà al Senato repubblicano, e di una Corte Suprema controllata dai tradizionalisti.
I nodi che Biden ha affrontato sono tra i più difficili e “pericolosi” del potere nazionale. Di fronte al razzismo endemico è stato deciso nell’auspicare un “giusto verdetto” nel processo per l’uccisione di Floyd, e non ha fatto mancare un commento spregiudicato (per il presidente) alla sentenza di condanna. Quindi sta tentando di far passare una legge di controllo del comportamento violento delle polizie (statali e locali) che è difeso dalla supremazia dei bianchi sui neri.
Si è lanciato nella campagna ambientalista divenendo anche il leader dello schieramento internazionale per il controllo del clima, riconosciuto da indiani e cinesi. In patria ha toccato interessi poderosi: le lobby delle armi, del tabacco, del petrolio e dell’industria pesante che sono sempre state agguerrite nel condizionare la politica e l’Amministrazione.
Ha ripreso la classica tradizione democratica di attenzione verso i ceti medi e popolari istituendo una tassazione sui capital gains dei più ricchi per finanziare con l’American Family Plan la sanità (questione irrisolta della nazione più ricca del mondo), l’educazione nei college, il welfare, e le provvidenze per i poveri.
Ultima ma non di minore importanza per la comunità internazionale, ha rilanciato l’azione interventista nei diritti civili e umani nel mondo, come nella migliore tradizione americana, pronunziando per la prima volta il tabù “olocausto” degli armeni compiuto dai turchi nel 1915, e poi ha proseguito non tacendo sulla persecuzione di Navalny da parte del Cremlino.
Si dirà che nei confronti degli autocrati Erdogan e Putin le mosse di Biden rispondono ad avvertimenti di politica estera. Certo che si tratta anche di questo. Ma è significativo che la “grande potenza” per eccellenza oggi intervenga non solo per tutelare i suoi interessi ma anche per difendere con la sua influenza i diritti umani e civili.
A me sembra che la “sorpresa radicale” di Biden allinei l’ultimo presidente Usa a due suoi predecessori democratici ben diversi, ma entrambi mossi da quel vigore democratico radicale che riappare in questi giorni: Il Franklin D. Roosevelt del New Deal e il Lyndon B.Johnson della migliore politica interna – solo interna, ripeto – della War on Poverty.
(da agenzie)
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