KEAN: “BASTA DISCRIMINAZIONI, CHI VIVE QUI E’ ITALIANOâ€
LA STORIA DI UNA FAMIGLIA ESEMPLARE… LA MADRE CHE PREDICA UMILTA’ DOPO UNA VITA DI GRANDI SACRIFICI… IL FRATELLO: “SIAMO FIERI DI ESSERE ITALIANI, GUARDATE LA FRANCIA: HA IL 90% DI CALCIATORI DI VARIE PROVENIENZE MA IL MONDIALE LO HANNO VINTO IN NOME DELLA FRANCIA”
Quando ha visto Mosè esultare dentro lo schermo della tv, mamma Isabelle s’è inginocchiata nel salotto di Venaria, distante appena duecento metri dall’Allianz Stadium: «Ho ringraziato il Signore e tutte le persone che stanno e sono state vicine a mio figlio. La via cristiana ci ha illuminato».
È religiosissima, mamma Isabelle: sia Mosè, come lo chiama lei, sia il fratello Giovanni hanno nomi ispirati alla Bibbia, portano sempre con loro il testo sacro e quando possono l’accompagnano in chiesa.
Mosè è Moise Kean, centravanti della Juventus e della Nazionale, simbolo dell’azzurro che guarda al futuro e di un’Italia che cambia ma, a volte, resta inchiodata al passato.
Moise è nato a Vercelli e cresciuto ad Asti, ha avuto la cittadinanza senza dover aspettare i 18 anni, però la sua storia, la sua sensibilità , la sua pelle l’avvicinano a problematiche attualissime: «Mi dispiace di tutto ciò che sento: alla fine, se stiamo tutti nello stesso Paese bisogna essere trattati tutti come italiani. Non ci devono essere diversità ».
Un messaggio semplice, senza pretese politiche, il pensiero d’un ragazzo italiano con radici in Costa d’Avorio.
Non è il suo percorso, ma è quello della famiglia, tramandato attraverso racconti che ripete con accento piemontese.
Papà , agronomo, partì nel ’90, quando aveva 24 anni, mamma ne aveva 16 e lo raggiunse poco dopo: attraversarono il cielo su un aereo di linea e non il mare su un barcone rugginoso, però anche loro sognavano una vita migliore: «La guerra non c’era ancora – racconta Isabelle -, ma scappavamo dalla povertà . Cinque o sei anni fa sono diventata cittadina italiana e automaticamente ho passato lo status a Mosè».
Oggi è serena, vive in una bella casa con Giovanni mentre il campioncino ha scelto un appartamento in centro a Torino («ma passa sempre dopo gli allenamenti, ancora adesso è un mammone» sorride), in mezzo ci sono anni durissimi: «Il papà ci lasciò quando Moise aveva 6 anni e Giovanni 11. Facevo l’infermiera ma il lavoro era lontano, le mattine mi alzavo alle quattro e a Moise badava il fratello: lo portava all’oratorio, giocava con i più grandi ma era il più bravo».
Giovanni mostra il cellulare, mamma Isabelle è memorizzata come «Capo»: «È stata la nostra salvezza, sempre presente e severa quando serviva, grazie ai suoi sacrifici siamo cresciuti in maniera impeccabile. La nostra infanzia complicata oggi è in campo con Moise: è il segreto della sua fame, della sua cattiveria agonistica».
Anche Giovanni gioca a calcio, ultima squadra il Rieti, Serie C, ed è tifosissimo di Moise, non c’è traccia di gelosia: «Che messaggio può arrivare da un ragazzo di colore che fa gol per l’Italia? Che è ora di aprire gli occhi. Le persone sono tutte uguali e la pelle non c’entra: basta distinzioni, si vince uniti. Il modello, per me, è la Francia: ha il 90 per cento di calciatori neri, con origini diverse, però, quando hanno vinto i Mondiali hanno premiato il loro Paese, non quello dei genitori. Il popolo italiano non è ignorante, però ci si deve svegliare».
Giovanni, come Moise, è sensibilissimo al tema della cittadinanza: «Noi ci sentiamo italiani e fieri di esserlo, siamo nati in Piemonte e abbiamo solo amici italiani, in Costa d’Avorio non siamo andati nemmeno in vacanza. Lo Ius soli? Non serve aver compiuto 18 anni, non bisogna fare distinzioni: chi è nato qua ha diritto di essere italiano».
Non è d’accordo, però, con Ramy, il ragazzino eroe del bus dirottato e dato alle fiamme: «Merita
applausi, ma io non avrei chiesto la cittadinanza: una legge va rispettata, anche se per me è sbagliata». Sorride, Giovanni: il gol azzurro di Moise può aiutare a capire meglio una società che cambia velocemente, non scolora solo brutte esperienze personali: «È capitato anche a noi, tante volte, di subire episodi di discriminazione. Però gli insulti ci stimolano, ci danno forza».
Lui ha fatto del pallone un mestiere, Moise è andato oltre: è una figurina d’album che i bambini si contendono. Ma sui campi minori, come nell’Olimpo del calcio, portano avanti insieme lo stesso insegnamento di mamma Isabelle: «Ho detto loro che bisogna restare umili e so che Moise lo metterà in pratica anche ora che sta diventando famoso. Gli dico sempre: per prima cosa devi ascoltare, per seconda mai rispondere male. E se qualcuno ti offende, chiedigli cosa hai fatto di male».
(da “La Stampa”)
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