LA FIERA DELL’IPOCRISIA: MA L’ELON MUSK CHE VUOLE TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA E AMMAZZARE I SUSSIDI STATALI ALLE IMPRESE, È LO STESSO CHE SI È MESSO IN TASCA MILIARDI PUBBLICI PER LE SUE AZIENDE?
DIFFICILMENTE SAREBBE ARRIVATO DOV’È SENZA UNA DOSE MASSICCIA DI SUSSIDI E ALTRI INTERVENTI PUBBLICI. SI POSSONO CONTARE ALMENO SEI MILIARDI DI DOLLARI IN TRASFERIMENTI A FONDO PERDUTO DEL CONTRIBUENTE AMERICANO A FAVORE DELLE SUE PRINCIPALI IMPRESE; PIÙ DI MEZZO MILIARDO IN PRESTITI PUBBLICI O GARANZIE SUL DEBITO A CONDIZIONI DI VANTAGGIO
Ognuno ha il suo ipocrita preferito e il mio era Fred Smith, fondatore e presidente di FedEx. Smith è un repubblicano americano vecchio stampo, 80 anni, vicino all’amministrazione di George Bush figlio e alla campagna (poi perdente) di John McCain contro Barack Obama nel 2008. Smith è un libertario in economia, convinto che lo Stato debba farsi piccolo e starsene quanto possibile in disparte mentre le imprese creano ricchezza. E fin qui, naturalmente, niente di male. […] Poi però si scopre che Smith – con il suo liberismo – ha accumulato gran parte della propria fortuna personale da 6,3 miliardi di dollari grazie a contratti di trasporto pacchi e merci di FedEx in sostanziale regime di monopolio con varie branche del governo americano. Pentagono incluso.
Si può essere più ipocriti? Si può. Prendete per esempio l’uomo che dal 5 novembre, giorno delle elezioni americane, ha visto il suo patrimonio salire di 114 miliardi di dollari; tutto questo arricchimento, realizzato attraverso la crescita del valore azionario delle sue aziende, non discende dal loro rendimento attuale ma da quello previsto dal mercato per il futuro grazie alla posizione politica di quest’uomo così vicino alla Casa Bianca.
Oggi la sua fortuna vale 376 miliardi, secondo Bloomberg. Sì, è lui: il più ricco del mondo, lo stesso che ha versato (almeno) 259 milioni di dollari nella campagna di Donald Trump. Lo stesso che ora lavora con il presidente eletto promettendo di tagliare la spesa federale americana di duemila miliardi, il 7% del prodotto lordo degli Stati Uniti. Naturalmente parlo di Elon Musk. Ma non avrebbe senso scagliarsi in un’invettiva contro di lui. Vorrei solo provare a spiegare perché la sua formidabile ipocrisia racchiude una lezione per tutti.
Prima di tutto, però, l’ipocrisia. Perché Musk è il nuovo campione del mondo della specialità? Dopo la campagna elettorale, si è fatto nominare da Trump nel ruolo consultivo ma influente di co-capo (con Vivek Ramaswamy) del «Doge»: Department of Government Efficiency. Il cuore del programma è individuare quei duemila miliardi di dollari di tagli alla spesa federale, pari al 28% del totale. Fatte le proporzioni, è come se l’uomo più ricco d’Italia venisse incaricato dal governo di trovare tagli per poco meno di 300 miliardi di euro nel bilancio dello Stato.
Su questo sospendo qualunque giudizio, benché negli Stati Uniti un’operazione del genere sembri complicata: semplicemente non si direbbe che ci siano duemila miliardi da tagliare. L’87% del bilancio federale è bloccato in spese che Trump non può o ha già detto che non vuole toccare (difesa, interessi sul debito e spesa sociale sotto forma di Social Security, Salute, Medicare e sussidi ai veterani di guerra). Musk dovrebbe dunque trovare duemila miliardi di tagli… in 910 miliardi di spesa restante. In bocca al lupo.
Ma questa è solo una premessa dell’ipocrisia. L’altra è quando lui stesso ha detto che farebbe a meno di tutti gli aiuti. Ha scritto nel luglio scorso l’imprenditore su X (ex Twitter), il social media di cui è proprietario: «Togliete tutti i sussidi, questo non farà che aiutare Tesla. Inoltre, cancellate i sussidi per tutti i settori produttivi!». Quel tweet, letto più da più di un milione di persone, segue di soli tre giorni il momento in cui Musk si è schierato a favore di Trump.
Ma davvero le cose stanno come dice l’uomo più ricco del mondo? Musk è un visionario e un imprenditore di capacità uniche, ha rivoluzionato interi settori, eppure difficilmente sarebbe arrivato dov’è senza una dose massiccia di sussidi e altri interventi pubblici. Si possono contare almeno sei miliardi di dollari in trasferimenti a fondo perduto del contribuente americano a favore delle sue principali imprese; più di mezzo miliardo in prestiti pubblici o garanzie sul debito a condizioni di vantaggio; e almeno undici miliardi di ricavi derivanti dai regolamenti governativi che permettono a Tesla di vendere ai concorrenti “crediti di carbonio” (in sostanza, diritti di inquinamento derivanti da una stima teorica delle minori emissioni da parte di Tesla stessa).
I sussidi e gli altri interventi pubblici sono piccola cosa rispetto al colossale valore azionario e ai buoni ricavi attuali di Tesla e di SpaceX; ma senza quegli aiuti probabilmente Musk non sarebbe riuscito a sviluppare le sue aziende al punto in cui sono oggi.
Forse sarebbero fallite prima, come ha ammesso lui stesso riguardo alla situazione del gruppo dell’auto fra il 2017 e il 2019. Forse in Europa non ce l’avrebbero mai fatta, perché magari quegli aiuti di Stato stati proibiti da Bruxelles.
Qui è il punto. Personalmente non sono sempre contrario ai sussidi alle imprese tecnologiche o industriali, né sono scandalizzato dalla lingua biforcuta dell’imprenditore: in fondo fa parte del gioco. Il problema è se un governo ne ottiene in cambio interferenze politiche, conflitti d’interesse e comportamenti degni di un oligarca post-sovietico.
Di recente al summit annuale della rivista «Grand Continent», uno degli appuntamenti più interessanti dell’anno in Europa, ho incontrato un americano che ha inquadrato perfettamente la questione. Si chiama Barry Lynn, ha poco più di 50 anni. Ha iniziato la sua carriera come camionista, operaio e muratore; poi, studiando e scrivendo, si è innalzato fino a dirigere un intero settore di ricerca della «New America Foundation» di Washington. Da lì venne licenziato nel 2017 per aver criticato in una ricerca gli abusi di mercato di Google, che era uno dei finanziatori del think tank. Da allora Lynn ha fondato il proprio centro studi e oggi esercita una profonda influenza sulle autorità Antitrust in America.
Mi ha detto al summit del «Grand Continent»: «Musk ha dimostrato di essere un genio, quel che fa è fantastico. Ha reso il mondo migliore. Non vedo un problema nel fatto che abbia ricevuto sussidi: anche altri ne hanno avuti e spesso non hanno portato risultati, come del resto è normale nelle scommesse tecnologiche. Il problema – ha continuato Barry Lynn – è che nel 2022 a Musk è stato permesso di comprare Twitter. È un errore che l’amministrazione di Joe Biden glielo abbia permesso, oggi vediamo quanto sia negativo per la democrazia che un imprenditore controlli un mezzo di comunicazione tanto influente». In sostanza Lynn fa presente che la Casa Bianca e i regolatori americani potevano bloccare quella mossa di Musk, non lo hanno fatto e lui quest’anno ha trasformato il suo social media – oggi sotto il nuovo nome di X – in una piattaforma di propaganda per Trump e di ascesa politica per sé.
Così Musk, da innovatore, si è fatto oligarca: deciso a usare il suo nuovo potere politico – conquistato anche grazie al suo social media – per precludere ai futuri innovatori gli aiuti pubblici che lui stesso ha usato per far crescere le sue start up. Oggi lui è in condizioni almeno di provare a sbarrare la strada ai suoi potenziali concorrenti, mentre l’America e il mondo rischiano di perdere qualcosa dell’innovazione futura
(da Corriere della Sera)
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