LA FRONDA DEL GOVERNO PER COMPIACERE GLI USA, MENTRE MELONI PENSA DI ANDARE A RAPPORTO DA MUSK E TRADIRE L’EUROPA
POSSIBILE INCONTRO CON IL PROPRIETARIO DI TESLA A PARIGI
Nel conflitto, la neutralità è debolezza. Ecco perché tra Washington e Bruxelles, Giorgia Meloni non cerca mediazioni e dà ordine di schierarsi con Donald Trump. E contro l’Europa.
«È il nostro campo di gioco», è il senso del messaggio che la premier recapita alla diplomazia prima della “conta” alle Nazioni Unite. La presidente del Consiglio sente Antonio Tajani per pianificare la strategia, quindi dà forma alle tesi antifrancesi e antitedesche di Giovanbattista Fazzolari, consegnando alla nuova amministrazione americana uno scalpo significativo: Roma, la capitale che ha ospitato il battesimo della Corte penale internazionale, “tradisce” le principali cancellerie europee. E apre una breccia pesante nel cuore del continente.
Sia chiaro: la campagna contro la Cpi non ha nulla di programmato. Senza il caso Almasri, l’Italia non avrebbe mai potuto sfilarsi dal documento proposto dagli europei all’Onu. Il pesantissimo scontro attorno all’arresto del torturatore libico, però, consente a Palazzo Chigi di accodarsi a Trump e sfruttare l’occasione per differenziarsi da Parigi e Berlino
E quindi, ancora: «Noi giochiamo questa partita al fianco della Casa Bianca — è l’indicazione di Meloni, riferita dal cerchio magico — anche perché la nuova amministrazione vuole andare fino in fondo contro l’Aia». E non basta: la premier è tentata dall’opportunità di rivendicare di persona questa scelta di campo all’amico Elon Musk. Il fondatore di Tesla (assieme al vicepresidente Usa J.D. Vance) è infatti tra i possibili ospiti del vertice sull’intelligenza artificiale che si terrà a Parigi l’11 febbraio. La leader non ha dato conferma della sua presenza e deciderà soltanto all’ultimo minuto, ma potrebbe volare oltralpe proprio per incrociare il multimiliardario garante del suo patto con il presidente degli Stati Uniti.
È uno scontro destinato a lasciare scorie, quello appena consumato all’Onu. A generare tensioni attorno alla Commissione europea. Secondo alcune fonti, Meloni avrebbe anticipato a Ursula von der Leyen dello strappo imminente. Certo è che la leader abbandona almeno per un giorno la “terra di mezzo” tra Usa ed Ue — è la teoria di Roma come ponte tra le due sponde dell’Atlantico — per conquistare la benevolenza di Trump. E d’altra parte, è cosa nota che l’altro nemico dell’Aia è il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il principale alleato del tycoon, oggetto di un mandato di cattura della Corte penale internazionale. Un mandato che l’Italia, tra i pochi in Europa, ha assicurato di non voler in ogni caso eseguire.
Sono giorni di battaglie pubbliche, ma soprattutto di duelli sotterranei. Di tensioni e dossier. Meloni si mostra poco o nulla, anche per evitare di sbilanciarsi. Meglio non trovarsi a dover rispondere a domande sul caso Almasri, o su altri dossier sensibili: il caso Paragon, la battaglia tra la Procura di Roma e l’intelligence, le dichiarazioni di Carlo Nordio. La premier partecipa solo ad un rapidissimo consiglio dei ministri. Dura venti minuti, viene disertato da mezzo governo: non ci sono Tajani e Salvini, impegnati all’estero. Il leghista però parla, altroché se parla, indicando lo scandalo Paragon come il sintomo di una guerra nei servizi. Poco dopo, rettifica. In mezzo, accade di tutto.
È Alfredo Mantovano a gestire il caso. Il sottosegretario con delega ai servizi ha spiegato solo martedì scorso al Copasir che è ormai intollerabile ritrovarsi l’intelligence ogni giorno sui giornali. Ha chiesto di abbassare i toni, denunciando un clima avvelenato: solo dopo, proverà a rimettere mano e ordine, una volta per tutte. Ha anche protetto l’operato degli apparati con un comunicato sulla vicenda Paragon, mentre Palazzo Chigi ha lasciato trapelare che forse è alle procure che bisognerebbe guardare, per capire cosa è successo con quello spyware. Il leghista spezza questa narrazione, pubblicamente. Consapevolmente. Viene richiamato all’ordine. Si adegua. Ma solo dopo aver mandato un segnale chiaro.
È nervoso, perché si ritrova bersaglio dei giudizi sprezzanti nelle chat dei meloniani. Il suo malumore preoccupa Meloni. Ma a disturbare di più la presidente del Consiglio è il fatto che un “traditore” abbia bucato il suo partito su WhatsApp. Ecco perché ieri ha convocato nella sede dell’esecutivo alcuni avvocati, per capire i margini legali.
Ed ecco perché lo stato maggiore del melonismo ha provato a incrociare i presenti nelle varie chat per individuare il minimo comun denominatore: sono pochissimi dirigenti, meno delle dita di una mano. Tra loro, la stessa premier e il cognato Francesco Lollobrigida. Bisogna cercare altrove. Il mistero continua.
(da La Repubblica)
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