LA PATACCA DI QUOTA 100: COSTERA’ 33 MILIARDI E SOLO IL 10% DI CHI LASCIA IL LAVORO VERRA’ SOSTITUITO
L’ANALISI DEGLI ESPERTI RIVELA IL BLUFF, DATI ALLA MANO
Quota 100 è un successo? Per definire se il provvedimento di pensionamento anticipato (può lasciare chi ha almeno 62 anni di età e 38 di contributi) porterà dei benefici al sistema in termini di staffetta generazionale, nuove assunzioni al posto di chi lascia l’attività , occorrerà attendere probabilmente qualche trimestre.
Tuttavia analizzando i dati di flusso delle domande, che non è detto si traducano in altrettante pensioni, possiamo già fare alcune considerazioni.
Si può stimare un costo totale dell’operazione attorno ai 30-33 miliardi, tra mancato flusso di contributi in entrata nella casse dell’Inps e maggiori spese per le prestazioni anticipate, ipotizzando 300 mila persone che approfittino di quota 100 nel triennio con durate medie dell’anticipo tra i 4,5 anni e un anno e mezzo.
Cifra che tiene conto anche di altre due opportunità concesse a chi vuole lasciare in anticipo il lavoro come l’opzione donna e la possibilità di tagliare il traguardo con 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne.
Nell’ipotesi che dopo il 2021 quota 100 non venga rinnovata, e che tutto torni, come probabile, alla legge Fornero, gli effetti finanziari (è l’unica buona notizia), si esauriranno nel 2026 quando anche l’ultimo stock di soggetti avrà raggiunto l’età anagrafica di 67 anni e qualche mese.
Ma quanti posti nuovi per i giovani potrà creare questo ingente investimento?
Considerando che il punto di massima espansione dell’occupazione si è verificato nel maggio-giugno 2018 con 23.345.000 occupati per poi ritracciare a fine 2018 a 23.269.000 (76.000 in meno) e, alla luce dei «flussi mensili» di nuove assunzioni e nuove dismissioni di personale che stanno mostrando un segno negativo, le aspettative di un discreto rimpiazzo di neopensionati sono modeste.
Tanto più che siamo in presenza di ciclo economico negativo (l’incremento 2019 del Pil sarà forse inferiore allo 0,4% e la produzione industriale è in una fase di forte calo e difficilmente migliorerà nel secondo semestre del 2019).
In questa situazione, come ampiamente accaduto in passato, le aziende cercheranno di liberarsi (anche con forme di pressione e buoni incentivi) di quanti più lavoratori possono, soprattutto tra coloro che sono difficilmente reinseribili nel nuovo ciclo di produzione perchè hanno professionalità obsolete oppure tra le fasce deboli ( tante assenze per motivi di salute o familiari).
In sostanza le categorie previste dall’Ape sociale che si sarebbero potute «trasferire» a costo zero per lo Stato nei cosiddetti fondi esubero o di solidarietà .
D’altra parte se le aziende si devono «alleggerire» di personale in eccesso rispetto al fabbisogno (cosa che sta succedendo dal Duemila al sistema bancario e assicurativo che ha così «prepensionato» oltre 70 mila lavoratori a costo zero per le finanze pubbliche) è più che giusto che paghino le imprese stesse in modo solidaristico e mutualizzando il costo, attraverso i fondi bilaterali.
Invece con quota 100, l’intero costo che poteva essere posto a carico del sistema produttivo (lavoratori e imprese) sarà pagato dallo Stato e quindi da tutti noi: un’occasione perduta.
Era difficile fare questa operazione? No. Bastava copiare quello che fece il governo nel Duemila. Risultato? La maggior parte dei circa 53.000 lavoratori dipendenti del settore privato che al 21 marzo hanno presentato domanda per quota 100 daranno luogo a pochissimi posti di lavoro per i giovani,
forse meno di un 10%. Quanto ai 17.200 autonomi, è più facile che una volta andati in pensione, intesteranno l’attività ai familiari e proseguiranno in «ombra». Molti, soprattutto al Sud, avranno anche diritto all’integrazione al minimo per gli scarsi contributi versati.
Il divieto di cumulo che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto bloccare l’esodo, darà invece luogo ad un incremento del lavoro irregolare, se consideriamo poi che gran parte delle domande provengono da aree in cui operano piccole e micro imprese industriali, ma soprattutto di servizi e turismo o nell’agro alimentare.
Restano infine i 30.500 dipendenti pubblici che andranno a sguarnire settori vitali come la scuola, la sanità e anche l’Inps: per questi la palla passa al governo.
Certo che per fare lavorare i giovani, dover pagare lo stipendio doppio (uno al pensionato e uno al neo assunti) non pare un grande affare tenuto altresì conto della grande perdita di professionalità nel trade-off.
Non era meglio spendere questi soldi per incentivare la nuova occupazione con il super ammortamento del 130% peraltro previsto nel programma della Lega e non trasferito nel famoso «contratto»? Considerando un incentivo medio di circa 17 mila euro, con 30 miliardi si sarebbero potuti finanziare oltre 1,7 milioni di posti di lavoro.
Mentre la decontribuzione totale al Sud denota (come per il governo Renzi) scarsa memoria e poca pratica. Questo sgravio lo abbiamo avuto per 20 anni fino al 1995: non ha portato un posto di lavoro in più. Solo altri costi per le finanze pubbliche e così pure il divieto di cumulo tra redditi da lavoro e quelli da pensione, enorme produttore di lavoro nero.
Infine, vista la rapidità nell’arrivo delle domande, è ipotizzabile che per la fine di marzo saranno superate agevolmente le 110 mila richieste di quota 100, le 40 mila anticipate e le 10 mila opzione donna; ciò significa che entro la fine di quest’anno avremo circa 250 mila lavoratori attivi in meno e altrettanti pensionati in più con un pericoloso deterioramento del rapporto attivi/pensionati che calerà di circa l’1,5% e un aumento del saldo negativo tra entrate contributive e uscite per prestazioni.
Alberto Brambilla
Presidente Centro studi Itinerari previdenziali
(da agenzie)
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