LA SCOMPARSA DELLA VERGOGNA
OGGI CHI HA POTERE SI SENTE LEGITTIMATO A STABILIRE I SUOI CRITERI DI COMPORTAMENTI E DECISIONI
“Ho perduto la mia reputazione», si disperava Cassio, nell’Otello di Shakespeare, per essere stato destituito dal suo ruolo di luogotenente a causa delle trame di Jago. «Ho perduto la parte immortale di me stesso».
Sono lontani i tempi in cui il sentimento dell’onore andava di pari passo con la coscienza della propria dignità e del riconoscimento pubblico di quelle che ancora si chiamavano virtù. Erano anche i tempi in cui la reputazione era un bene spendibile che generava credibilità e costruiva fiducia, due valori che componevano il capitale sociale della persona e alimentavano la sua considerazione pubblica.
La vergogna di Cassio per la perdita di un bene prezioso, ancorché non dovuta a sue colpe, segnalava l’esistenza di una sensibilità e di un sentimento che consentiva alle persone di regolare vita e condotte secondo principi che collocavano ognuno all’interno di una scala di riconoscimenti sociali che sarebbe stato drammatico perdere.
Oggi richiamare come virtù la capacità di vergognarsi per qualcosa che deroga dai canoni di lealtà, onore, buona fede, rispetto, sembra operazione del tutto opinabile; un tentativo goffo, e un po’ patetico, di richiamare concetti passati di moda. Forse, a ben guardare, sono venute a mancare quelle cerchie di appartenenza che esprimevano canoni di rigore e rettitudine non derogabili per chi volesse continuare a farne parte. Ma forse, ancora di più, ha inciso un progressivo decadere dei sistemi di un potere che, dimentico della missione fondativa di dedizione al servizio pubblico e alla salvaguardia dei valori in cui una comunità potesse riconoscersi, ha debordato per ogni dove, rendendo plausibile per chiunque il non sentirsi colpevole di niente.
Oggi chi ha potere, un potere qualsiasi, da quello politico a quello imprenditoriale, si sente legittimato a stabilire i suoi criteri di valutazione di comportamenti e decisioni che, proprio perché personali, non prevedono ripensamenti. E dunque non sa proprio che cosa sia, voglia dire, o comportare, un sentimento di vergogna. Ci siamo abituati, ognuno in proprio, ad allevare criteri individuali di valore, che regoleranno di conseguenza comportamenti, relazioni, aspirazioni e programmi. Con un principio guida di fondo: tutto è bene se non ci disturba, disposti anche a tollerare, con moderazione, che qualcuno non la pensi del tutto come noi purché non abbia in testa di attentare al nostro territorio di potere.
All’interno di questa deriva crescono generazioni caratterizzate da ciò che Ortega y Gasset chiamava una “ingratitudine radicale”, nel senso che si impara presto a non dovere niente a nessuno, per non essere chiamati a rendere conto di nulla. Salvo poi affiliarsi a cordate promettenti, che sanno di protezione comunque, a patto di una fedeltà senza discussioni o tentennamenti. Come sarebbe possibile sentirsi in difetto e provare vergogna quando si entra a far parte del circuito in cui il potere protegge, anche quando comportamenti e azioni reclamerebbero quantomeno di sentirsi a disagio e di porsi qualche interrogativo?
La vergogna è un sentimento nobile perché ha a che fare con la dignità e l’onore. Gran brutti tempi quando il potere si ingegna ad avvalorare curricoli senza storia per dominare spazi senza progetto né visione, abilitando ognuno a pensare che, comunque, qualcosa gli spetti necessariamente, purché ci si arrenda e ci si accodi. E dunque, per non vergognarsi, vittime ancora di questo sentimento obsoleto e ridicolo che ci prende anche quando toccherebbe ad altri provare vergogna, si è costretti per forza a essere devianti; e orgogliosi, per di più, di una minorità che richiederebbe un ben diverso rispetto. Oppure, si può fare della vergogna che si prova per quello che sta avvenendo e che non siamo stati in grado di contrastare la molla per trovare uno scatto di dignità e gridare pubblicamente allo scandalo di una società e di una politica senza rispetto. Serve comunque coraggio per resistere e non arrendersi a quanto Jago sosteneva, ammonendo un Cassio tutto preso dalle sue ambasce, che «la reputazione è un sovrappiù, vuoto e falso, spesso ottenuta senza merito e perduta senza colpa».
(da repubblica.it)
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