LE AMBIGUITA’ DEL GOVERNO MELONI, TRA SCARSA VISIONE E VOGLIE IDENTITARIE
SUI FLUSSI MIGRATORI E’ LEGATO DA NORME SOVRANAZIONALI, SULLA FINANZA PUBBLICA E’ ALLA MERCE’ DELLA UE
A un paio di mesi dal suo primo compleanno, al termine di un’estate difficile e alla vigilia di un autunno che si preannuncia più difficile ancora, si può forse tentare di abbozzare una prima, provvisoria definizione del governo Meloni. Questa è la mia proposta: «Il governo Meloni è un governo pragmatico radicato nella tradizione della destra italiana, le cui linee di controllo interne sono sempre più accentrate su un piccolo nucleo di persone strettamente legate alla Presidente del Consiglio. Dedica il 95% delle proprie energie ad affrontare sfide più o meno emergenziali con provvedimenti che per il 95% sono definiti dal perimetro dei vincoli esterni, e il restante 5% a curare alcuni dossier identitari. Fatica, per insufficiente forza politica e culturale, a proiettarsi oltre il breve periodo e a dominare le battaglie ideologiche della nostra epoca, rispetto alle quali si colloca in una posizione volutamente ambigua».
Questa definizione nasce alla confluenza di due riflessioni, la prima sullo spazio del politico nell’Italia degli anni Venti, la seconda sulla consistenza politica e culturale della destra italiana.
Due dossier, quello che ha segnato l’estate e quello che segnerà l’autunno, mostrano con sufficiente chiarezza quanto angusto sia oggi lo spazio del politico: i flussi migratori sono prodotti da contingenze geopolitiche e avviluppati in una rete di norme giuridiche sovranazionali, la finanza pubblica è alla mercé della congiuntura economica, delle decisioni della Banca Centrale Europea, della revisione del Patto di stabilità e crescita.
Nell’un caso come nell’altro, si tratta di condizioni che qualsiasi governo italiano può modificare poco o per nulla. Il gabinetto Meloni ha preso atto di questa realtà e, come detto, si è pragmaticamente dedicato a sfornare decisioni in buona misura precondizionate su urgenze anch’esse precondizionate.
È un fallimento, questo, per un governo che ambirebbe a ripristinare la sovranità nazionale? Più ancora: è una tragedia. Che appartiene però alla tragedia ben più vasta e profonda dell’appassire della dimensione politica nel suo complesso. Non per caso le opposizioni versano in condizioni ben peggiori della maggioranza e sono ancora lontane dal proporsi come un’alternativa plausibile. Anche il grande moto di rivolta contro la crisi del politico che ha segnato gli ultimi dieci anni e che abbiamo chiamato populismo ha perduto la propria spinta propulsiva, almeno in Italia: gli elettori si sono rassegnati a respirare un’atmosfera assai rarefatta nello spazio pubblico e, come da tradizione nazionale, si sono dati a cercare soluzioni individuali negli spazi privati. Il montare dell’astensionismo lo dimostra in maniera piuttosto chiara.
La destra è arrivata al governo afflitta da un’antica e ben nota debolezza di cultura e classe dirigente. L’insufficienza del suo ceto di governo è testimoniata, in fondo, dalla stessa presidente del Consiglio. L’evidente riflesso difensivo di Meloni, il suo sforzo di accentrare il più possibile il controllo dei dossier nelle mani di un piccolo gruppo di fedelissimi, il fatto che col tempo non soltanto non abbia allargato la plancia di comando, ma la stia anzi restringendo: tutto questo dimostra che è la prima a non fidarsi delle seconde file del suo mondo – figurarsi dei mondi limitrofi. Prudenza comprensibile, che comporta tuttavia un prezzo non lieve: più si accorcia la catena di comando, più il gruppo di testa rimpicciolisce e diventa omogeneo, e più il fiato si mozza, le prospettive strategiche si disseccano e l’azione di governo si riduce ad amministrazione delle urgenze quotidiane. Perché, molto semplicemente, mancano le risorse per fare altro.
La cultura di destra nell’Italia repubblicana è sempre stata debole e minoritaria. Figurarsi il sottosettore di quella cultura che faceva politicamente capo al Movimento sociale italiano. Ma non possiamo limitare il discorso alla Penisola. Anche paesi che hanno una tradizione conservatrice ben più ricca della nostra, come quelli anglosassoni, hanno finito per affidarne la rappresentanza a leader istrionici e narcisisti e a retoriche sgangherate e provocatorie. Malgrado incontrino il favore di vasti strati della popolazione, insomma, gli argomenti del conservatorismo paiono incapaci di proporsi sulla scena pubblica al contempo con forza e in una forma culturalmente strutturata. Quasi come se la storia avesse spazzato via la logica e perfino la lingua con le quali li si poteva difendere. L’ormai noto best-seller del generale Vannacci non è altro che la conseguenza logica di questo fenomeno. Tragico anch’esso: una tragedia solo in parte attenuata dal fatto che, pure in questo caso, se Sparta piange, Atene certo non ride. Il progressismo ha vinto le battaglie culturali e ha conquistato la logica e la lingua. Solo, quella logica e quella lingua non descrivono più la realtà: la cultura progressista non ha visto arrivare la protesta cosiddetta populista, non l’ha capita, non ha saputo né sa risponderle. E si è ridotta infine al gioco patetico dell’indignazione, come è accaduto da ultimo proprio con Vannacci e, in maniera ancor più ridicola e strumentale, con Giambruno. Nell’indifferenza, quando non nell’insofferenza dei più.
Se queste sono le premesse, è evidente allora come il gabinetto Meloni – nonostante il consenso di cui gode e continuerà a godere e malgrado, come detto, sia destinato a non avere alternative ancora per un bel pezzo – non possa avere la forza, culturale e perciò anche politica, per disegnare e realizzare progetti di ampio respiro, né, con ogni probabilità, per portare a compimento riforme politicamente o finanziariamente onerose: la costituzione, la giustizia, il fisco. E nemmeno per scegliere fra la mimetica del generale Vannacci e il doppiopetto del presidente dei popolari europei Manfred Weber. Capita che ci si chieda quando comincerà la seconda fase di questo governo, se Meloni ripenserà il partito dotandolo di un più robusto ancoraggio conservatore, se scioglierà le ambiguità che ha mantenuto finora fra il profilo di lotta e quello di governo. La risposta a tutte queste domande è: con ogni probabilità, mai. Di certo non prima delle elezioni europee, ma, se l’analisi che ho svolto qui ha minimamente senso, nemmeno dopo. Questo esecutivo sembra destinato a conservare l’imprinting del suo primo anno di vita: una creatura pragmatica e reattiva, dominata dalle emergenze ben più che dai programmi. Una Meloni molto più Angela Merkel che Margaret Thatcher, insomma. Ma la nostra, del resto, è l’epoca delle Merkel, non delle Thatcher.
(da agenzie)
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