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“LE LUPE”: IL PASSATO MILITANTE DEGLI ANNI ’70 RITORNA FEROCE NEL LUTTO DI UNA MADRE

IL ROMANZO DI FLAVIA PERINA RACCONTA LA STORIA DI UNA MADRE ALLA QUALE VIENE UCCISO UN FIGLIO DALLA POLIZIA: EVENTO CHE RIACCENDE PASSIONE POLITICA E RABBIA GIOVANILE

Quando le ammazzano il figlio, Flaminia, la protagonista del romanzo Le lupe (Baldini&Castoldi) di Flavia Perina, inaugura la sua quarta vita, quella più tragica, atroce, cruenta, dolorosa.
La prima vita era quella di lei giovanissima negli anni Settanta, spesa in una destra spesso tentata dall’avventura sconsiderata dell’illegalità  violenta (anche armata nelle sue propaggini più estreme) e che si è conclusa con la rottura di affetti e legami all’arrivo del destino.
La seconda era una vita che cancellava le tempeste di quella precedente attraverso i riti e il cloroformio di un matrimonio, la routine coniugale, il benessere benpensante, le comodità , il tepore del focolare, la fine delle ambizioni annegate nello stagno brodoso della casalinghitudine.
La terza, seguita alla morte del non amatissimo coniuge in un incidente automobilistico, era l’autonomia riscoperta, l’amicizia paritaria con i figli fuori dai vincoli propri di una retorica matrimoniale, la solitudine non subita come una maledizione, la quotidianità  non esaltante ma libera.
La quarta è quella che ti piomba addosso, ti squassa, ti annienta quando tuo figlio diciottenne, amante del rugby, viene fermato da una pattuglia di poliziotti reduci dagli scontri attorno allo stadio Olimpico, reagisce malamente, ma viene ricambiato con una violenza sproporzionata, smisurata, vendicativa da parte di un uomo in divisa che schiaccia un ragazzo sicuro della propria impunità , certo della protezione che le istituzioni gli riserveranno, nell’omertà  di corpo, con l’insabbiamento della verità .
Il romanzo di Flavia Perina ci dice che queste quattro vite non finiranno di intrecciarsi, che il passato non cesserà  di riaffiorare o addirittura di irrompere prepotentemente nel presente e che il destino non si presenta mai una sola volta: la vita è un labirinto dove non sai mai una volta per tutte qual è la direzione giusta da imboccare.
I movimenti della protagonista delle Lupe traggono forza da una motivazione profonda che risale ai primordi della psiche, del mito.
Dello «ctonio» come avrebbe detto Camille Paglia: chi si vendica con rabbia implacabile su chi ha ucciso il figlio è una donna, una madre ferita a morte, una grande madre che non può contenere il suo dolore nei binari freddi della giustizia ordinaria, ma deve annichilire chi ti ha strappato la carne della tua carne.
È difficile per un uomo cogliere la materialità  terrestre di questo sentimento ancestrale, dove ogni razionalizzazione viene soppiantata da una dimensione di ferinità .
E dove l’esercizio della giustizia non può placare la sete di una Giustizia primaria impossibile da realizzare nelle procedure fredde di un procedimento giudiziario, tanto più quando sai, come è accaduto tante volte in Italia, che i colpevoli in divisa di pestaggi, rappresaglie, maltrattamenti non saranno perseguiti mai.
C’è poi, nella trama del racconto della Perina, il rapporto sempre aperto e mai risolto che l’autrice intrattiene con gli anni Settanta, l’epoca della militanza, della passione politica.
Un passato che la protagonista, alter ego dell’autrice in questo caso, ha narcotizzato, ricondotto a una dimensione di accettabile moderazione istituzionale, o forse abbandonato in favore di una vita definitivamente normalizzata, rientrata stabilmente nei ranghi.
Eppure è un passato che ritorna con il suo volto invecchiato ma pur sempre sovraccarico di un valore emozionale che non avrà  eguali in nessuna tappa della vita della post-militanza.
E che anzi riesploderà  quando Flaminia sarà  brutalmente ricacciata all’indietro da un trauma insanabile: quando un dolore inimmaginabile, la morte di un figlio massacrato di botte da un uomo in divisa che sta già  architettando il percorso della propria impunità , manipolando prove e testimonianze, la scaraventa nella dimensione rimossa dei vent’anni in cui si passava il tempo a fare politica.
A destra, nel suo caso.
Ecco, per Flavia Perina, lo si percepisce da ogni riga di questo romanzo che non ammicca al lettore con il miele dei buoni sentimenti ma che parla di vendetta e morte, quel passato non è solo vissuto come il momento in cui la vita si fa ardente e colma di passione, ma è un passato che ha una dimestichezza con le emozioni della violenza, delle armi, persino delle rapine con cui l’estremismo armato si finanziava, che la Perina, beninteso, non condivide affatto nella sua deriva oltranzista e apertamente militare, ma che pure esercita su di lei il fascino dell’autentico contro la menzogna della vita adulta, dell’appassionato contro lo scialbo, dei colori vivi contro il pallore esistenziale della vita imprigionata nei ranghi stabiliti dalla convenzione.
Per Flavia Perina gli anni Settanta sono la sua vera Patria morale, il momento della verità .
E quando la tragedia, inaspettata ma feroce, deflagra, allora le risorse per sopravvivere vanno ricercate lì, nel mondo delle pistole, dell’esistenza semiclandestina, al confine tra legalità  e spirito eversivo.
È una scelta coraggiosa, questa della Perina.
Perchè, anche se non la si condivide, questa fedeltà  allo spirito autentico che lei immagina sia rimasto attaccato ai ricordi degli anni Settanta, ha qualcosa di temerario. E poi perchè l’esperienza politica di Flavia Perina, che qui riaffiora senza più nessuna complicazione ideologica ma in un atto di pura sfiducia nei confronti della giustizia gestita dallo Stato, è stata vissuta in un enclave minoritaria e addirittura dannata («i fascisti») che rende ancora più aspro il legame emotivo con un mondo scomparso eppure ancora vivo nelle sue oramai del tutto impolitiche, o depoliticizzate, implicazioni esistenziali.
I lupi, le lupe, il bosco ai margini della metropoli scintillante: ecco il sottosuolo che riemerge e che lascia affiorare in modo ancor più doloroso la percezione di un’ingiustizia rimasta impunita, di un sentirsi, ancora oggi, sul confine di una marginalità  psicologica, anche dentro l’agio di una vita borghese.
Un romanzo che non riconcilia, ma che rivendica la durezza di una scelta, esempio riuscito di come la letteratura perderebbe molto di sè se volesse investirsi di una missione consolatoria o, peggio, pedagogica.

Pierluigi Battista
(da “il Corriere della Sera”)
«Le Lupe» (Baldini&Castoldi, pagine 194, euro 15)

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