L’EX PRESIDENTE DELL’INPS TRIDICO: “SALARIO MINIMO POSITIVO PER LO STATO, CI GUADAGNEREBBE 1,5 MILIARDI”
“PER LE CASSE PUBBLICHE NE DERIVEREBBE UN MAGGIOR GETTITO E MENO NECESSITA’ DI SUSSIDI”
«Finalmente si parla di salario minimo. È una riforma necessaria: l’occupazione aumenterebbe e lo Stato avrebbe solo da guadagnare. Tra maggior gettito e minori sussidi parliamo di 1,5 miliardi l’anno». Poi le pensioni, che «possono aumentare per molti lavoratori del 10%». Secondo Pasquale Tridico, economista dell’Università Roma Tre, fino allo scorso 15 giugno presidente dell’Inps, il momento per affrontare il tema non potrebbe essere più propizio.
«La questione salariale – spiega – negli ultimi due anni si è fatta ancora più urgente, alla luce dell’inflazione che l’anno passato ha sfiorato il 12% e quest’anno viaggia al 7,6%. La crisi pandemica ha inasprito disuguaglianze e povertà. E questo dopo trent’anni in cui, come testimonia un recente rapporto dell’Ocse, i salari reali medi dal 1990 al 2020 sono diminuiti del 2,9% a fronte di un aumento della produttività, rapporto tra fatturato e orario di lavoro, cresciuta del 12%».
Il salario minimo è davvero necessario?
«Sì, anche alla luce del fatto che la contrattazione nel frattempo si è indebolita, ha in parte perso la sua funzione anticoncorrenziale».
In che senso, professore?
«Lo scopo della contrattazione è quello di evitare una concorrenza tra imprese sulla pelle dei lavoratori. Troppo spesso oggi assistiamo a un sorta di bazar dei contratti (ne abbiamo ben 1.011 tipi!): si sceglie questo o quell’altro a seconda della convenienza, scatenando un dumping salariale, una corsa al ribasso dei compensi della parte più debole del lavoro».
Molti imprenditori sostengono che proprio il salario minimo potrebbe distruggere quel che resta della contrattazione. Non è così?
«È un falso problema. Laddove c’è il salario minimo la contrattazione ha, al contrario, continuato a essere forte e i salari tendono ad aumentare, anche ai livelli più bassi».
Un esempio?
«In Germania il salario minimo esiste dal 2015, inizialmente fissato a 9 euro. Il cancelliere Olaf Scholz l’anno scorso lo ha portato a 12 euro e, alla luce dell’inflazione, sta pensando a incrementarlo a 14 euro. La dinamica è positiva per i lavoratori. Il salario minimo poi non esclude, ma incoraggia anche una contrattazione per un trattamento economico maggiore anche sul fronte di mensilità aggiuntive, del welfare, della formazione, dei permessi, della sicurezza. Di tutto quello che va oltre il salario di base».
Ma una volta che è fissato il minimo, non c’è il rischio di un livellamento al ribasso?
«Non è così. Dove i contratti sono buoni è perché esiste una contrattazione che funziona e i sindacati hanno una piena rappresentatività. L’esempio dei metalmeccanici è illuminante. Altro discorso va fatto per i contratti che possiamo definire cattivi».
Allude agli accordi “pirata”?
«Con il salario minimo i contratti pirata verrebbero fortemente indeboliti, non c’è dubbio. Il loro obiettivo è da sempre quello di abbassare i salari. Se non si può scendere sotto i 9 euro il loro obiettivo è perso in partenza. Per debellarli, in ogni caso, servirebbe una legge sulla rappresentanza che aspettiamo da decenni. Ma ci sono anche contratti cattivi senza essere pirata».
Ossia?
«Penso alla logistica, al turismo, alla ristorazione. A mala pena nel contratto si arriva all’equivalente del salario minimo, figuriamoci se possono trovare spazio voci aggiuntive migliorative. Spesso i sindacati, per loro stessa ammissione, per evitare di perdere rappresentatività sono costretti a rincorrere i contratti pirata. Abbiamo il caso eclatante della guardiania, dove il compenso è di 5 euro l’ora, con il sì delle sigle principali che non vogliono perdere il settore».
Poi c’è la terra di nessuno.
«Questo è un altro problema. Si tratta di settori poco sindacalizzati, spesso nuovi, dove sovente i lavoratori sono in maggioranza stranieri. Una delle argomentazioni contro i migranti si concentra proprio sulla loro ricattabilità dal punto di vista dei salari: accettano paghe da fame e fanno concorrenza agli italiani. Ecco, con il salario minimo il ricatto verrebbe meno».
Resta la piaga del lavoro nero, non trova?
«Ma quello è un fenomeno di illegalità e va perseguito. Abbiamo un paese imperfetto in politica come in economia. Già il reddito di cittadinanza aveva evidenziato che esisteva una questione salariale: ricorda quanti hanno rinunciato al lavoro perché la paga era più bassa del sussidio?».
Il salario minimo può sostituire il reddito di cittadinanza nella lotta alle disuguaglianze?
«Sono platee diverse. Ma in assenza di salario minimo il reddito funzionava da quello che gli economisti chiamano “salario di riserva”: la soglia psicologica sotto cui non si può andare. Con il salario minimo però succede qualcosa di diverso. Equivale a dire a bagnini, camerieri, operatori di servizi sanitari, vigilantes che i salari sono cresciuti. Così si agevola l’incontro tra domanda e offerta, e si dà un colpo di acceleratore all’occupazione».
Diminuirebbero anche le disuguaglianze?
«Secondo i nostri calcoli l’indice di Gini, che misura appunto le disuguaglianze, calerebbe di 1,5 punti. Questa riforma non rappresenta neppure un costo per Stato. Anzi, comporta maggiore gettito e minori sussidi. Un vantaggio da 1,5 miliardi l’anno. Pensi poi alle pensioni: negli ultimi mesi in cui ero all’Inps abbiamo fatto delle simulazioni».
E cosa ne è venuto fuori?
«Se dessimo un salario minimo di 9 euro l’ora, un livello compatibile con la direttiva dell’Ue, a tutti quelli che stanno sotto questa soglia le pensioni aumenterebbero del 10%. Con maggiori vantaggi per le donne e per i lavoratori nati dopo il 1980, che hanno iniziato a lavorare più tardi. I dati ci dicono che sotto i 9 euro sono per il 38% gli under 35 e il 16% tra quelli più anziani. Tra le donne il lavoro povero è al 26%, contro il 21% degli uomini».
La premier Meloni dice che l’occupazione va a gonfie vele, dunque è tutto a posto. Le quadra?
«Ragionerei piuttosto in termini assoluti, secondo cui ad avere un impiego sono 23,4 milioni, più o meno gli stessi del 2019. L’occupazione è il rapporto tra occupati e forza lavoro. Dal 2019 abbiamo perso 800 mila persone tra i 15 e i 65 anni per via del calo demografico. In termini percentuali abbiamo una crescita, ma è solo un effetto ottico e statistico. La verità che in molti settori in questi anni sono saliti i prezzi, i salari no. E di conseguenza nemmeno l’occupazione. Abbiamo l’occasione, almeno in parte, per recuperare».
(da La Stampa)
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