L’INCUBO DI TRIA: 400 MILIARDI DI BOT E BTP DA COLLOCARE NEL 2019
CON LE BANCHE CENTRALI E I GRANDI FONDI IN RITIRATA
“Il Mef comunica che, in considerazione dell’ampia disponibilità di cassa e delle ridotte esigenze di finanziamento, le aste di titoli a medio-lungo termine previste per il giorno 13 dicembre 2018 non avranno luogo“. Secco, asciutto, essenziale.
Il comunicato con cui il ministero dell’Economia e delle Finanze annunciava la cancellazione delle emissioni previste per metà dicembre, ovviamente, non tradiva allarmismo. Come da prassi.
La giustificazione addotta, poi, è di quelle buone per ogni stagione. Come una giacca blu che va su tutto.
Certo, quando però lo spread è stato in altalena fino all’altro ieri e di fronte a te, oltre a un contenzioso da ricomporre con la Commissione Ue, hai necessità di finanziamento per oltre 400 miliardi per il 2019, cui devi far fronte senza più gli acquisti della Bce, i cattivi pensieri emergono e stuzzicano.
Soprattutto, quando si pensa che il 13 dicembre si terrà la riunione del board della Bce e nel primo pomeriggio Mario Draghi parlerà con la stampa per illustrarne i contenuti.
Fino a un mese fa, nessuno aveva particolari attese al riguardo: la fine del Qe era certa, così come un più che probabile primo aumento dei tassi nel secondo semestre dell’anno prossimo.
Ora, però, qualcosa pare tornato in discussione e il mercato comincia a guardare a quel giorno con interesse e, con il passare delle ore e l’approssimarsi dell’appuntamento, con un po’ di apprensione.
L’attesa di tutti non è certo quella di prolungamento sic et simpliceter del programma di acquisto come finora intrapreso ma almeno un paio di alternative vengono prezzate: aste di rifinanziamento a lungo termine per le banche e una qualche alchimia all’atto del reinvestimento dei titoli già in detenzione all’Eurotower, ad esempio uno swap fra scadenze brevi e lunghe per garantire ancora un po’ di scudo anti-spread ai debiti più sensibili.
Leggi, Italia, Spagna e Portogallo. Ecco che allora andare in asta con titoli a medio-lungo termine a poche ore dalla decisione della Bce avrebbe potuto rappresentare un azzardo, di quelli politicamente pesanti.
Un eventuale flop con rendimenti troppo al rialzo, infatti, avrebbe un potenziale psicologico in grado di rovinare il Natale e, certamente, di non spianare la strada alle ultime emissioni dell’anno, quelle del 27 e 27 dicembre (rispettivamente Bot e Ctz e medio-lungo termine).
Ma al netto dei trucchi, quanto c’è da preoccuparsi per il 2019, se davvero la Bce non dovesse garantire un minimo di supporto, anche indiretto? Quali sono le prospettive dell’appetito obbligazionario per l’anno prossimo?
A dare un risposta al quesito, analizzando le cifre del 2018 e le dinamiche post-Qe globale, ci ha pensato JP Morgan nel suo ultimo report, il quale non pare proprio offrire il cosiddetto silver lining alle speranze del governo italiano di poter collocare debito senza troppi patemi d’animo e, soprattutto, senza svenarsi a livello di rendimenti da offrire come premio di rischio.
L’assunto di base è semplice: stante il calo da oltre 1000 miliardi di dollari degli acquisti delle quattro principali Banche centrali (G4) nel 2018 rispetto all’anno precedente, “questo minore appetito da parte dei compratori di ultima istanza (e, nel caso dell’Italia, quasi di unica istanza, ndr) sarà il key driver nel cambio di dinamica domanda/offerta per i bond governativi, con il rischio di innescare un aumento generalizzato dei rendimenti“.
Non una bella premessa.
Insomma, l’anno prossimo le operazioni poste in atto dalle Banche centrali — fra dimagramento del bilancio, fine o riduzione degli acquisti — “costringerà il mercato ad assorbire un ulteriore decremento di domanda pari a oltre 400 miliardi di dollari“. Ma, unendo l’impatto del lato della domanda con quello dell’offerta, il minor flusso garantito dalle G4 imporrà un altro calo di 550 miliardi per il 2019.
Il report, poi, si addentra ad esaminare quelli che sono i principali soggetti attivi nel mercato obbligazionario sovrano: ovvero, banche commerciali, pubblico retail, investitori istituzionali esteri e fondi pensione. E anche qui, il quadro appare tutt’altro che roseo.
A partire proprio dalle banche commerciali, di fatto il polmone d’acciaio cui sono legate le emissioni di debito del Tesoro, stante l’accertata fuga di investitori stranieri e lo stop del Qe.
Già oggi il cosiddetto doom loop fra istituti di credito e detenzioni di debito sovrano rappresenta la criticità maggiore del sistema Italia, non a caso bersagliato dai mercati che, al minimo accenno di tensione politica, accoppiano all’azione sullo spread quella sul sistema bancario, duramente colpito a Piazza Affari proprio per la sua eccessiva esposizione ai Btp e alla loro variazione di valore a bilancio.
Il consensus degli analisti si attendeva che quest’anno le banche commerciali avrebbero controbilanciato per circa 500 miliardi il “dimagrimento” da oltre 1.000 miliardi di dollari dei flussi della Banche centrali, stima basata sul fatto che nei cinque anni precedenti, i 7.000 miliardi di acquisti legati ai vari cicli di Qe delle Banche centrali avevano visto gli istituti di credito assorbire circa 3.000 miliardi di dollari di controvalore in bond in meno di quanto non avrebbero fatto senza programmi di stimolo.
Le ultime stime, ci dicono invece che l’effetto di controbilanciamento da parte delle banche per quest’anno sia stato solo di circa 200 miliardi di dollari rispetto al flusso di acquisti degli istituti centrali, ovvero un moltiplicatore di circa 0,2 rispetto a quello di oltre 0,4 atteso.
Dunque, se i piani delle G4 non cambieranno e se, soprattutto, la Fed non fermerà in qualche modo il suo piano di roll-off sui bond a maturazione per 50 miliardi di dollari al mese, cominciato a pieno solo nel trimestre in corso, le banche commerciali non potranno assolutamente essere viste come un controbilanciamento sufficiente a colmare il gap crescente fra domanda e offerta nel 2019.
C’è poi la clientela retail, la stessa che ha snobbato in maniera clamorosa la recente emissione del Btp Italia, inviando un pessimo segnale al governo e mostrando — seppur striminzito e senza colpi di scena — un trailer del film cui rischiamo di dover assistere il prossimo anno ad ogni asta.
Anche qui, gli animal spirits non sembrano voler entrare in azione a forza quattro. Dopo la domanda di obbligazioni superiori agli 800 miliardi di dollari di controvalore del 2017, Jp Morgan si attendeva un risultato finale più o meno simile per l’anno che sta per concludersi, non fosse altro per il periodo di transizione che ha rappresentato in seno alle dinamiche di uscita/rallentamento dai cicli di Qe.
Così non è stato, invece. Dopo la fortissima domanda registrata in gennaio, infatti, le turbolenze sui mercati dei mesi immediatamente successivi hanno portato a un netto raffreddamento degli acquisti, tanto che l’attesa per il dato finale per l’intero 2018 si attesterebbe a un poco confortante controvalore di 320 miliardi.
Si tratta del livello più basso dal 2015 e negli ultimi dieci anni, soltanto due volte — 2011 e 2013 — si era registrata una domanda così debole.
Prospettive per il 2019? Per Jp Morgan, l’attesa è quella di un incremento di circa 80 miliardi rispetto all’anno in corso: insomma, circa 400 miliardi, al di sotto della media a dieci anni di 480 miliardi. E senza più Qe a garantire sostegno price insensitive.
Ci sono poi gli investitori istituzionali esteri, di fatto le riserve valutarie dei mercati emergenti (Cina in testa) che girano per il mondo in cerca di investimenti fruttuosi e rendimenti che valgano il rischio.
Questi grafici mostrano però due cose. Primo, rispetto alle stime annualizzate dell’Fmi, relative ai dati del primo semestre e fissate in 230 miliardi di dollari, la realtà parla di una crescita delle riserve degli emergenti già in indebolimento per i secondi sei mesi dell’anno.
Per Jp Morgan, facendo riferimento alle cifre disponibili alla fine di ottobre, si parla di un calo di circa 15 miliardi di dollari, cifra che porta il ritmo di crescita annualizzato a circa 130 miliardi per l’intero 2018, qualcosa come 100 miliardi meno del 2017.
E per il 2019? Il secondo grafico parla chiaro e mette in prospettiva numerica l’impatto di quello che viene definito il driver principale nel rallentamento della domanda di bond da parte di questa categoria di investitori: la politica monetaria cinese e il contrasto all’eccessivo deprezzamento dello yuan.
Di fatto, per il prossimo anno l’attesa è per una domanda di bond sovrani pari a circa 130 miliardi di dollari, cifra che può davvero poco per controbilanciare il netto calo dell’appetito obbligazionario delle Banche centrali.
Infine l’unica nota positiva, ovvero i fondi pensione. I quali, al netto della maggior regolamentazione prudenziale e della necessità di futura supervisione negli investimenti prospettata per quelli dell’eurozona dallo stesso Mario Draghi parlando allo European Systemic Risk Board il 26 novembre, quest’anno dovrebbero presentare un dato di domanda aggregata di bond per circa 700 miliardi di controvalore, dato leggermente più alto delle attese e dovuto a un maggior appetito dei fondi pensione statunitensi, spinti all’acquisto dallo shock fiscale di Trump che consente loro di beneficiare di un tasso maggiore di sconto sulle future liabilities.
Ma al netto dell’impatto di quel taglio delle tasse, destinato a svanire entro l’estate del 2019, il dato generale per l’anno prossimo parla di domanda comunque in calo a circa 600 miliardi di dollari, ancora maggiore della media a dieci anni di 550 miliardi ma ben lontana dal potere agire da efficace offset al disimpegno delle G4.
Insomma, le dinamiche di domanda e offerta previste, al netto delle attuali politiche delle Banche centrali, fra tutte le principali categorie di investitori obbligazionari sovrani per il 2019: il deterioramento nel bilancio netto fra domanda e offerta di bond appare palese e marcato, poichè ai circa 130 miliardi di aumento stimato della prima si vanno a sommare i -350 miliardi della seconda, dovuti appunto al disimpegno delle Banche centrali.
Cifre e analisi che freddamente mettono in prospettiva le liabilities strutturali del comparto a livello mondiale che attendono il Tesoro italiano l’anno prossimo per le sue enormi necessità di finanziamento.
E che, di fatto, non contemplano l’eventuale aggravamento delle condizioni di emissione dovute a tensioni politiche interne o con l’Ue.
Qui si parla, meramente, di domanda e offerta , al netto di quanto comunicato dalle Banche centrali e dai trend a dieci anni degli investitori obbligazionari.
Il carico da novanta su quella che già pare un’impresa improba lo sta mettendo, scientemente e giorno dopo giorno, il governo giallo-verde.
Lo stesso che ha annullato l’asta a medio e lungo termine prevista per il 13 dicembre. Forse, sperando nel regalone di Natale anticipato di Mario Draghi.
(da “Business Insider”)
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