MELONI IN ABRUZZO SI GIOCA BEN PIU’ DELL’ABRUZZO
SE PERDE, DOPO LA SARDEGNA, NON E’ PIU’ UN INCIAMPO MA UNA CHINA… SE VINCE DI UN SOFFIO NON SARA’ FACILE GIUSTIFICARE IN OGNI CASO LA PERDITA DI CONSENSI
Se sei in testa nei sondaggi sin dalla vittoria delle elezioni, il che ti ha consentito di fare del governo un one woman show e degli alleati dei prigionieri politici; se, in questa marcia trionfale, hai avuto il primo inciampo in Sardegna, per colpa della tua arroganza nell’imporre un candidato a causa del quale hai perso; se questo ha cambiato radicalmente il clima in Abruzzo dove eri in vantaggio di venti punti due mesi fa e ora la sfida è aperta; se dopo l’inciampo, invece di un bel bagno di umiltà, hai esasperato, nel comiziaccio di Pescara, i toni ruvidi di Sassari; se queste sono le premesse è chiaro per Giorgia Meloni, la sconfitta in Abruzzo sarebbe difficilmente circoscrivibile alla voce “secondo errore”, ma piuttosto indicherebbe una “china”.
Facciamola breve: la Sardegna è stata uno sbaglio soggettivo, figlio di una sindrome di onnipotenza, l’Abruzzo sarebbe una bocciatura oggettiva del melonismo praticato a livello regionale: il suo feudo locale, lì dove tutto nacque nel 2019 con una vittoria con quasi venti punti di scarto.
E già in questo dato c’è un elemento di analisi perché, se la prima volta hai vinto a valanga e la seconda sei in bilico, qualcosa non ha funzionato. Di norma, l’uscente – vedi Luca Zaia, Giovanni Toti, Michele Emiliano, Vincenzo De Luca – va de plano, se non ha combinato particolari disastri.
Inciso, prima di continuare a discettare di possibili conseguenze per l’uno e per l’altro e dell’uno o dell’altro risultato, e qualche istruzione tecnica.
La prima: l’Abruzzo non è la Sardegna, perché non c’è voto disgiunto, quindi, la debolezza del candidato (Marco Marsilio) viene relativizzata dal fatto che, se uno vuole punirlo nell’urna, punisce anche la lista, ed è un bel deterrente.
La seconda: il voto è un “petto a petto”, non c’è un terzo candidato come Renato Soru, il che, normalmente, favorisce chi sta al potere.
La terza: la partita si gioca nel rapporto tra aree interne e costa. Storicamente l’Abruzzo interno è solidamente di centrodestra: nel 2018 l’unico collegio, in tutto il centrosud, che non fu vinto dal M5s fu proprio quello dell’Aquila, diventato nel 2022 il collegio di Giorgia Meloni (che nel frattempo lì ha piazzato il suo sindaco, il fedelissimo Pierluigi Biondi con percentuali bulgare).
Dove l’elettorato è più mobile è da Teramo verso la costa, quindi il tema è quanto l’Abruzzo Ultra dei Borboni (la costa) riesce a Recuperare sull’Abruzzo Citra (le aree interne).
E poiché, in termini demoscopici, Citra ha perso più popolazione di Ultra, più è alta l’affluenza trainata dalla costa più aumentano le chance del centrosinistra.
Aggiungiamone un’altra. Diffidate dei sondaggi, quelli delle ultime ore servono più come spin che come strumenti di indagine. Il termometro più affidabile del clima è l’ansia che ha accompagnato il centrodestra.
Mai si era vista una tale parata di ministri che, per supplire alla mancanza di un rendiconto di governo regionale su cui chiedere di nuovo la fiducia, si sono presentati a metà tra Achille Lauro (quello di una scarpa prima e una dopo il voto) e Giorgio Mastrota.
Per come è stata vissuta, interpretata, la sfida è davvero diventata una specie di Ohio, anche perché dell’Ohio, paragone spesso abusato, ha stavolta un elemento che la Sardegna non aveva in quanto microcosmo di un possibile scenario nazionale nella dinamica degli schieramenti.
Il comiziaccio di Pescara della premier di questa posta in gioco è un esempio sfolgorante. Che molto racconta del momento psico-politico in cui si trova Giorgia Meloni. Incapace di autocritica e di un cambio di passo dopo la botta, ha riproposto il format sardo: personalizzazione, vocine e autocelebrazione dei risultati del governo (di Abruzzo ha parlato cinque minuti scarsi).
Ha radicalizzato, mettendosi al centro della tenzone. In un’epoca che accelera cicli politici e percorsi psicologici è pienamente entrata nel “momento Renzi”, la narrazione egoriferita che gli valse le amministrative nell’anno del referendum, amplificata da una atavica sindrome da bunker.
Lei, il potere che si auto-magnifica, Elly Schlein, Giuseppe Conte e Carlo Calenda che invece parlano dei problemi degli ospedali di Tagliacozzo, dei lavoratori di Mosciano e della riserva del Borsacchio.
Insomma, è lei stavolta che ha tutto da perdere. La vittoria la metterebbe al riparo dalla “china”: il momento magico finito, la questione della classe dirigente, l’insofferenza degli alleati. Se uno vince, punto. Però saggezza suggerirebbe di prestare ascolto anche agli scricchiolii di una vittoria di misura, quelli, come si dice nelle pagelle del calcio, di quando si vince ma non si convince, perché in ogni caso chiuderebbero la fase del Re Mida.
Gli altri invece hanno tutto da guadagnare, tranne che da una rovinosa sconfitta. In ogni caso è tornata la competizione o, quantomeno, è meno mutilata.
(da Huffingtonpost)
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