MELONI & SCHLEIN, COM’E’ DURA LA CANDIDATURA
SALVINI E TAJANI NON CORRONO, LA SEGRETARIA PD PRENDE TEMPO, LA MELONI “VALUTA”
E ora chi glielo dice a Giorgia che non si deve candidare, che non può stravincere le europee? Tra Forza Italia e Lega si rimpallano l’ingrato compito. Prima del faccia a faccia decisivo – di tempo ce n’è – Antonio Tajani e Matteo Salvini il messaggio l’hanno affidato alla bottiglia del mare magnum mediatico. “O corriamo Meloni, Salvini e io, oppure è meglio che non lo faccia nessuno”, dice il leader di Forza Italia. “Continuerò a fare il ministro, non mi candido”, gli fa eco il titolare del Mit. Loro non si candidano, in una singolare convergenza parallela. Ma alle loro parole manca l’affondo finale: “Giorgia, non farlo”.
La presidente del consiglio è favorita dai sondaggi, che danno Fdi in crescita e gli alleati invece messi decisamente peggio: Forza Italia al 7 per cento, la Lega che punta a stare sopra il 10.
Alla conferenza stampa di fine anno ha fatto capire di essere pronta. “Io sono una persona per la quale niente conta di piu’ che sapere di avere il consenso dei cittadini, ogni volta che ho preso una decisione – ha detto – mi sono misurata con il consenso dei cittadini e anche adesso sarebbe utile e interessante”. La premessa tuttavia è che “una decisione andrà presa insieme agli altri leader della maggioranza”.
Sono gli alleati la palla al piede di Meloni in versione europea. La sua discesa in campo alimenta scenari da Transatlantico, con Fdi che vede crescere ulteriormente i consensi verso la soglia del 30 per cento, e Forza Italia e Lega a pagare pegno. Il Carroccio rischia di stare sotto la doppia cifra e Forza Italia vicino allo sbarramento. In queste condizioni che ne sarà della coalizione di centrodestra?
Il bivio di Giorgia Meloni è se stravincere, candidandosi in tutti i collegi, o accontentarsi di una vittoria netta, alla quale non aggiungere però l’amplificatore della personale discesa in campo.
La scelta non è presa, ma non è lontana, perché se il 9 giugno è di là da venire, è chiaro che il sacrificio della Meloni va ricompensato in una logica di coalizione che vede dentro anche le regionali, le amministrative, e anche il famoso patto anti-socialisti di Salvini. “La partita è complessiva”, dicono fonti di Fdi.
Stefano Candiani, decano leghista e grande esperto di candidature, ricorda la coerenza della scelta di Salvini. “Che uno venga eletto in Europa e poi si dimetta è un meccanismo usurato. Matteo ha fatto chiarezza”, dice Candiani all’Huffpost.
E Meloni, allora sbaglierebbe a candidarsi? “Dovrebbe riflettere. Motivi di coalizione le consiglierebbero di non candidarsi. Stravincere può nuocere alla coalizione”.
Ma tra i meloniani duri e puri circola invece un’altra narrazione: “Altro che coerenza… Salvini si è candidato alle europee da ministro dell’Interno. Ha preso il 33 per cento e non è rimasto a Bruxelles”. L’avvertimento dei leghisti, insomma, non risuona minaccioso alle orecchie di molti in Fratelli d’Italia. Anche di un moderato, democristiano docg, come Gianfranco Rotondi. “Che Meloni si candidi è la cosa più normale del mondo. Berlusconi lo ha sempre fatto. Quando uno sa di avere consenso, deve misurarlo nelle urne. E’ la regola principe della politica. Poi gli scenari che si aprono, si affrontano in un secondo momento. A tutto c’è rimedio”, dice all’Huffpost.
Una variabile di cui tenere conto è la candidatura di Elly Schlein. Se la leader dem correrà, Meloni potrebbe optare per la candidatura, quali che siano i consigli interessati dei vicepremier.
Ma da un po’ di tempo, anche nel Pd il partito della Schlein-candidata flette. Se Meloni deve vedersela con la zavorra degli alleati, Schlein deve schivare le correnti.
Lo stretto cerchio della segretaria mette in conto che Meloni si candiderà e preme perché la segretaria sia capolista nei cinque collegi, magari con una discesa in campo alla ‘non ci hanno visti arrivare’, decisa all’ultimo minuto per cogliere di sorpresa la rivale.
Ma mano a mano che si sposta a sinistra nella mappa dem, scema l’entusiasmo per questa soluzione. Matteo Orfini, all’Huffpost, ricorda che sono altri i partiti che puntano sul leader onnipresente. “Fdi è un partito personalista, ed è logico che pensino di candidare Meloni in tutti i collegi. Ma da noi non sarebbe compreso”, dice. “Più logica sarebbe la candidatura di Schlein in uno o due collegi, per dare una spinta in più. Ma a ben vedere non è necessario, e a dirla tutta non lo è neppure per Meloni. Ricordate Renzi? Prese il 40 per cento senza scendere in campo personalmente. Se un leader c’è si vede anche se non è scritto nella scheda elettorale”.
Anche Andrea Orlando ha messo in guardia dalla personalizzazione dello scontro. “Piuttosto Schlein deve lavorare a una classe dirigente in Europa che rispecchi la piattaforma programmatica che ha vinto il congresso, per un’Europa sociale che non si fermi al derby europeisti-antieuropeisti”, dice l’ex ministro.
Tiepida sulla candidatura di Schlein è infine l’area riformista di Stefano Bonaccini. La corrente avrà molti candidati – da Dario Nardella a Giorgio Gori, a Emanuele Fiano, Antonio Decaro- pronti a contarsi con quelli targati Schlein. E’ l’eterno congresso dem, una ragione forse per consigliare a Schlein di schivare le urne.
Ma c’è un ragionamento che accomuna le due contendenti, e porta ancora una volta al precedente di Matteo Renzi. La stravittoria del rottamatore nel 2014, con l’exploit del 40,8% inatteso anche per lui, gli coalizzò contro un variegato fronte di partiti che fece da incubatore alla sconfitta del referendum nel 2016.
Molti di quelli che votarono ‘no’ venivano da sinistra. Per questo nel Pd fanno conto che quando Meloni dice che non farà la fine di Renzi, forse significa che non adotterà quella strategia neppure alle Europee. Non stravincere ma sposare una logica di coalizione.
Il ministro Francesco Lollobrigida, l’uomo più vicino alla premier, interpellato dall’Huffpost, conferma questa lettura. “A noi interessa il centrodestra nel suo complesso, interessa il risultato della coalizione che deve essere grande e vincente. Il risultato di Fratelli d’Italia è secondario. Non vogliamo stravincere”. Che sia vero o meno si vedrà e c’è tempo per verificarlo. Ma le prime mosse di questa lunga campagna elettorale vanno in questa direzione. Di fatto in Sardegna con la candidatura di Paolo Truzzu al posto di Christian Solinas, la leader di Fdi incassa il primo passo indietro della Lega. E’ un segnale chiaro. Da qualche tempo, poi, non si sente più parlare del patto antisocialisti che Salvini sbandierava contro Meloni mentre la premier ha offerto ampia copertura al rivale sull’Anas-gate.
In maggioranza i rapporti sono amichevoli, come si capisce anche dai dettagli. Quando alla buvette s’incrociano il capogruppo forzista Paolo Barelli e lo stesso Lollobrigida, il ministro chiede una mano per sistemare le candidature di area. “Ma che facciamo con Svp? Li candidate voi o noi?”. Gli azzurri, un tempo fautori della discesa in campo di Berlusconi, sono tra i più tiepidi sostenitori della Meloni uber alles. “E’ una decisione che prenderanno insieme i tre leader. Ma noi di Forza Italia non siamo in crisi. Siamo pimpanti. Puntiamo al 10 per cento”, promette. Il famoso ottimismo berlusconiano, eredità preziosa di questi tempi.
(da Huffingtonpost)
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