MELONI SU VENTOTENE TORNA ALLE RADICI PR FAR DIMENTICARE LE SPACCATURE DEL GOVERNO
ALTRO CHE STATISTA, SEMBRA MOLLICONE: L’ULTIMA TROVATA E L’OLTRAGGIO ALLA MEMORIA
L’ultima trovata di Giorgia Meloni è l’oltraggio alla memoria. La mostrificazione del Manifesto di Ventotene, magna charta del federalismo europeo, testo sacro per l’Italia repubblicana e antifascista, per scatenare l’inferno in Aula e spostare l’attenzione mediatica via dalle difficoltà proprie e dalle divisioni del governo.
Prima dichiara che lo fa «a beneficio di chi ci guarda da casa» e dopo averlo fatto lo rivendica, postando il suo intervento sui social: «Giudicate voi». Sono gli elettori i suoi interlocutori, il resto non conta.
La premier a Montecitorio inaugura così un nuovo orizzonte della destra al potere, finora certamente inesplorato persino nel trentennio berlusconiano. È il nazionalpopulismo. Il trumpismo versione italiana. Forse non il suo punto di inizio, ma di certo a un punto di svolta.
Alle 12 e 20, giunta ormai alla fine della seconda replica del dibattito alla vigilia del
Consiglio europeo in cui si discuterà del piano ReArm Eu, la premier estrae dei fogli e si mette a leggere alcune citazioni parziali estrapolate dal Manifesto di Ventotene. L’intento è denigratorio, la lettura è volutamente decontestualizzata, fuorviante, offensiva, un perverso abracadabra. È quello l’effetto che vuol sortire: «Non è la mia Europa», conclude soddisfatta. Il dibattito in Aula, che fino a quel punto con la replica della premier si trascinava all’insegna della mediocrità – i taccuini dei giornalisti rimasti bianchi per assenza di spunti – si anima improvvisamente.
Mezz’ora prima, a Radio24, il leghista Riccardo Molinari aveva anticipato le parole di Matteo Salvini: «L’Italia non approverà una risoluzione che dà a Meloni il mandato di approvare il ReArm eu». Dice cioè che la premier non ha il mandato per dire sì al piano di von der Leyen. Sono le parole che certificano la distanza interna alla maggioranza, con i Fratelli d’italia e Forza Italia favorevoli al piano, i leghisti contrari. Sarebbe la sostanza, il cuore del dibattito, si dovrebbe parlare di questo. Ma nessuno in quel momento ha tempo di farci caso.
Nell’Aula si scatena un inferno, mai visto almeno da anni. Le proteste delle opposizioni, per una volta tutte unite, invece di essere sedate da un sapiente intervento della presidenza (silente, interverrà solo dopo una riunione dei capigruppo per intimare rispetto per quella storia e quelle persone), vengono al contrario eccitate dal sottosegretario Gianmarco Mazzi, che applaude provocatorio dai banchi del governo, gesto vietato dai regolamenti parlamentari, incitando i suoi colleghi a fare altrettanto. Tutti si alzano: protestano non solo i soliti, ma anche i più silenziosi. I più moderati. Urla in piedi anche il capo dei moderati del Pd, Lorenzo Guerini, nessuno dei presenti gliel’ha mai visto fare: «Non urlavo dal 1971», cioè da quando aveva 5 anni, confesserà poi lui stesso. Il presidente Lorenzo Fontana prova a dare la parola al ministro Foti per i pareri del governo sulle mozioni da votare, ma il caos gli impedisce anche quel passaggio formale. L’opposizione rifiuta di accettare che si possa andare avanti nei lavori d’aula, la seduta viene interrotta, poi Fontana accorda un giro di interventi.
Il vero simbolo del giorno è Federico Fornaro. Storico, uomo di numeri, schivo, silenziosissimo, durante la bagarre e poi quando ottiene la parola esplode della rabbia dei miti, di quelli che sempre si danno come regola di non esagerare: «Usare in questo modo la memoria di Ventotene significa oltraggiare la memoria di Altiero Spinelli considerato in tutta Europa il padre dell’Europa. Si inginocchi la presidente del consiglio!». Dice alla fine di un intervento appassionato e commovente, prima di crollare sul banco e piangere, con le mani davanti alla faccia. I suoi gesti e le sue parole racchiudono quelle di un intero mondo, incredulo nel vedere stracciati così i fondamenti minimi della dialettica politica, ma anche della noncuranza con la quale la leader del partito , tante volte accusata di non aver fatto i conti con il fascismo, maneggia la storia e capovolge il senso di ciò che accadde proprio nel Ventenni
«Fascisti? Dopo ottant’anni? Ma basta!», grida infatti il suo capogruppo Galeazzo Bignami, dai banchi di Fratelli d’Italia. Perché ecco, il livello è questo.
Giorgia Meloni, mentre le agenzie battono il Salvini che dice non avrà il mandato al piano di riarmo, sorride dai banchi del governo. Eccitato il dibattito da un’altra parte, spostata l’attenzione, è il massimo che poteva ottenere in una giornata come questa. Certo, il prezzo in termini di credibilità personale è forse troppo alto. Ancora una volta la premier rinuncia a fare un salto verso lo standing di leader internazionale, riconosciuta e stimata. Più che verso Angela Merkel sembra avviata verso Federico Mollicone. Ma anche nell’ambizione ci sono delle priorità e certamente Meloni ha le proprie.
(da L’Espresso)
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