NUOVO ESPOSTO DI MEDITERRANEA: “NOI SPIATI DAI SERVIZI”
INDAGA LA PROCURA DI VENEZIA… “SORVEGLIATI PERCHE’ L’ATTIVITA’ UMANITARIA E’ CONSIDERATA TERRORISMO”
Insieme a Palermo, Napoli, Roma e Bologna, anche la procura di Venezia ha iniziato a lavorare sul caso Paragon.
A impegnarla con una dettagliata querela di quattordici pagine è Beppe Caccia, cofondatore di Mediterranea Saving Humans e capomissione della Mare Jonio, come Luca Casarini, David Yambio, Husam al Gomati e Francesco Cancellato per mesi, se non più, spiato con Graphite dell’azienda israeliana. Un software sofisticato che, si ricorda nella denuncia, viene venduto solo a governi “occidentali di regimi democratici e costituzionali e con l’espresso divieto contrattuale di impiegarlo in danno di giornalisti, attivisti della società civile e oppositori politici”.
I reati ipotizzati
La querela è stata depositata oggi in procura a Venezia insieme al cellulare che Caccia usava quando da Meta è arrivato l’alert sull’attività di spionaggio in corso, insieme al consiglio di cambiare immediatamente dispositivo, del quale è già stata fatta una copia forense. E mentre il governo continua a tacere, gli approfondimenti tecnico-giudiziari, stando a quanto filtra, potrebbero partire subito, con l’obiettivo di sciogliere il nodo, ormai estremamente chiaro, attorno a cui ruota la vicenda Paragon. Chi ha ordinato quelle intercettazioni? E perché? I reati che si ipotizza siano stati commessi sono pesanti: accesso abusivo a sistema informatico aggravato dalla qualifica di Pubblico Ufficiale con abuso di poteri, detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparati informatico e illecita interferenza nella vita privata.
Le due principali ipotesi
Le ipotesi possono essere solo due e nella sua denuncia-querela gli avvocati di Caccia, Giuseppe Romano e Agnese Sbraccia, le indicano chiaramente. La prima: quelle intercettazioni sono totalmente illegali e per questo Paragon, come anticipato dai media e confermato dopo dal governo, ha sospeso in contratto con l’Italia. La seconda: quelle sono intercettazioni preventive, effettuate legittimamente da uno dei due servizi di intelligence e come tali autorizzate dal procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Amato. I casi in cui si può disporre un’attività di questo tipo sono pochi e chiaramente definiti: mafia, terrorismo, pericolo per la sicurezza nazionale e in generale “a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia”.
Il nodo dei tempi
La legge è estremamente chiara anche sui tempi: non possono durare all’infinito. Entro 30 giorni l’attività va chiusa, il procuratore generale prima e il Copasir poi informati e verbali, supporti e note distrutti. Ma stando a quanto scoperto dai ricercatori di Citizen Lab, pronti a collaborare con le autorità italiane, quanto meno sul telefono di Casarini e di don Mattia Ferrari, sui cui dispositivi l’operazione di inoculazione dello spyware non è andata a buon fine, l’operazione di spionaggio è iniziata più di un anno fa. Questioni che potrebbe chiarire il procuratore Amato, la cui audizione è prevista per oggi al Copasir.
“Attività a puro scopo intimidatorio”
Il sospetto non solo di Caccia, ma anche degli altri attivisti di Mediterranea vittime dell’operazione di spionaggio è che sia stata l’ong a essere presa di mira. E se è vero che tutte le forze di polizia hanno informalmente o formalmente – è il caso della penitenziaria, “scagionata” ufficialmente dal ministro Carlo Nordio – negato di avere in uso il software, allora “si delinea un possibile intervento dei servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica”. Auditi al Copasir i vertici di Aisi e Aise hanno ammesso di avere a disposizione il software Paragon, ma di averlo sempre usato legittimamente, cioè secondo i paletti imposti dalla legge sulle “misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale”.
“Adesso dicano se l’attività umanitaria è terrorismo”
Se fosse questa l’ipotesi, per Mediterranea sarebbe in tutto e per tutto un abuso. “Ogni possibile utilizzo nei miei/nostri confronti appare del tutto disancorato dalla realtà e di applicazione deviata al solo scopo di intimidazione dell’impegno sociale e politico di natura solidaristica e umanitaria proprio dell’organizzazione non governativa da me fondata”, si legge nella querela presentata da Caccia.
Vanno all’attacco i legali: “qualcuno pensa che l’attività umanitaria e solidale condotta dalle persone colpite dallo spionaggio possa essere assimilata a ‘terrorismo’? Che il soccorso civile in mare e il sostegno a donne, uomini e bambini vittime di gravissime violazioni dei diritti umani possa costituire un pericolo per la sicurezza nazionale? E che dire di META che li ha avvertiti? Sarebbe responsabile di favoreggiamento?”
“Spiati per l’attività di solidarietà?”
Il motivo, emerge fra le righe, sarebbe tutto politico. Alla base di “un’attività spionistica di tale portata” potrebbero esserci “proprio e unicamente” le attività di Mediterranea e dei suoi attivisti: “la testimonianza/documentazione delle molteplici violazioni dei diritti umani fondamentali che si verificano in Tunisia e Libia, come nel Mediterraneo, con il coinvolgimento di responsabilità governative italiane, presenti e passate, e le numerose iniziative di solidarietà intraprese dal sottoscritto e da Mediterranea a sostegno di persone vittime di detenzioni arbitrarie, abusi e violenze di ogni genere in Libia e Tunisia, e di non assistenza e omissioni di soccorso in mare”.
Un’attività che parte da lontano?
Nero su bianco è la formalizzazione dei sospetti di cui già in passato sia Luca Casarini, sia don Mattia Ferrari avevano parlato. Il giovane sacerdote si era detto preoccupato per il “tentativo di criminalizzazione della solidarietà”, mentre Casarini aveva denunciato che “l’unica ragione di questa attività potrebbe essere costruire dei dossier contro di noi”. E un precedente, non troppo lontano nel tempo – hanno ricordato sia lui, sia Caccia nelle rispettive querele – c’è già. Risale al dicembre 2023 quando atti coperti da segreto investigativo, non ancora depositati a Ragusa dove da tempo si trascina un procedimento contro l’equipaggio di Mediterranea e in nulla ricollegati all’indagine, sono finiti per settimane sulla stampa. Ne sono venuti fuori tre procedimenti – a Milano, Ragusa e Modena – ancora in fase di indagine, mentre fra gli attivisti si fa strada l’ipotesi che quello non fosse altro che il primo atto di un’attività pensata per distruggere l’ong e il suo lavoro nel Mediterraneo. “Confidiamo – concludono gli avvocati Sbraccia e Romano – in un intervento rapido e approfondito degli inquirenti, che anche in altre quattro procure (Napoli, Palermo, Roma e Bologna) stanno già svolgendo indagini simili”.
(da agenzie)
Leave a Reply