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OTTO PER MILLE, COSI’ ABBIAMO REGALATO 10 MILIARDI ALLA CHIESA

I 600 MILIONI CHE LO STATO NON VUOLE

L’abolizione del Senato è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi.
La Camera alta costa agli italiani oltre mezzo miliardo l’anno (541 milioni l’anno scorso) e per il premier si tratta di uno di quei costi della politica da tagliare con l’accetta.
Eppure, malgrado la continua difficoltà  di trovare risorse, è come se lo Stato italiano pagasse ogni anno un Senato aggiuntivo rispetto a quello esistente.
Come? Rinunciando a circa 600 milioni di gettito Irpef, che in un momento economicamente tanto difficile avrebbero un effetto balsamico sulla casse statali.
È una delle conseguenze della legge che nel 1985 ha istituito l’8 per mille , che all’articolo 47 prevede che “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”.
Tradotto: anzichè essere incamerati dal bilancio dello Stato, vengono distribuiti anche i soldi di chi non barra la casella. Un po’ come accade alle elezioni, dove i seggi sono ripartiti a prescindere dalla percentuale di astensionismo. “I soli optanti decidono per tutti” come ha osservato la Corte dei conti, criticando il sistema.
Il fatto è che, forse perchè non sono a conoscenza di questo meccanismo, i contribuenti che non indicano alcuna destinazione dell’8 per mille sono la maggioranza: fra il 55 e il 60 per cento del totale. Eppure tutti quanti, in questo modo, “regalano” senza volerlo la loro parte di Irpef.
La principale beneficiaria è ovviamente la Chiesa cattolica, che essendo la destinataria numero uno delle opzioni porta a casa più del doppio di quanto le spetterebbe sulla base delle scelte effettuate.
Lo scorso anno, ad esempio, con il 38 per cento di firme raccolte sul totale dei contribuenti, la Cei ha ottenuto l’82 per cento dei fondi.
Ovvero oltre un miliardo anzichè 485 milioni.
Ripartendo anche i soldi dei cosiddetti “non optanti”, negli ultimi 15 anni – ha calcolato l’Espresso – lo Stato ha sborsato circa 10 miliardi di euro. In media 600 milioni l’anno, al netto delle risorse aggiuntive che lo stesso Stato italiano ottiene, essendo fra i destinatari del finanziamento.
COSàŒ NON FAN TUTTI
In realtà , eccependo su questo automatismo che non rispetta la reale volontà  dei contribuenti, alcune confessioni religiose si sono rifiutate di ricevere il denaro extra.
Le Assemblee di Dio e la Chiesa apostolica, ad esempio, rinunciano alla quota relativa alle scelte non espresse, che rimane per loro volontà  di pertinenza statale.
Anche i valdesi fino al 2013 hanno osservato questa condotta, ritenendo giusto gestire soltanto i fondi che gli italiani, in modo esplicito, attribuivano loro.
Poi però, considerata la discutibile gestione dell’8 per mille statale, anche loro hanno deciso di accettare pure quelli “aggiuntivi”.
D’altronde da anni la quota a gestione pubblica viene usata come bancomat dai governi, dal finanziamento delle missioni internazionali alla riduzione del debito pubblico. Una truffa che ha raggiunto il culmine lo scorso anno , quando su 170 milioni solo 405 mila euro sono stati utilizzati per gli scopi previsti dalla legge: lo 0,24 per cento.
UNA GENEROSA ECCEZIONE
È proprio necessario che il meccanismo dell’8 per mille funzioni a questo modo? Non si direbbe, a giudicare dai casi analoghi che prevedono la possibilità  di destinare parte del prelievo Irpef.
Il neonato 2 per mille, che ha sancito il flop dei contributi volontari alla politica , per il 2014 aveva a disposizione 7,75 milioni. Ma avendo raccolto appena 16.518 firme, ha assegnato solo 325 mila euro.
All’atto di stendere la legge, in pratica, nessuno si è sognato di ripartire i fondi calcolando anche i contribuenti che non avrebbero indicato un partito. E difatti i soldi non distribuiti sono stati riversati nel bilancio dello Stato. Che cosa sarebbe accaduto se il Partito democratico – che si è piazzato primo con 10 mila destinazioni espresse in suo favore – avesse incassato il 61 per cento della torta, ovvero quasi 5 milioni?
Lo stesso discorso vale per il 5 per mille, destinato alle onlus. Anche qui c’è un tetto che viene fissato anno per anno dal governo (500 milioni nel 2014) e pure in questo caso la ripartizione si calcola solo sulla base delle scelte espresse.
La ridistribuzione totale operata dall’8 per mille è insomma una generosa eccezione, pensata appositamente per la Chiesa cattolica quando si trattò di mettere mano al Concordato mussoliniano.
Fino ad allora la Santa sede veniva finanziata infatti dallo Stato tramite i cosiddetti supplementi di congrua, con cui veniva assicurato il sostentamento del clero.
Temendo di non raggiungere quella cifra, il ministero delle Finanze effettuò delle proiezioni ad hoc per stabilire il livello di prelievo necessario. E aggiunse anche la ripartizione basata sul totale dei contribuenti. Deus ex machina dell’ingegnoso sistema, un poco noto docente di Diritto tributario a Pavia, all’epoca consulente del governo Craxi e destinato a una luminosa carriera politica: Giulio Tremonti.
CACCIA AL TESORETTO
Dal 1990, anno dell’entrata in vigore, il gettito Irpef è salito esponenzialmente per effetto dell’aumento della pressione fiscale.
Non a caso già  nel 1996 la parte governativa della commissione paritetica Italia-Cei osservava che “la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione” e che “già  oggi risultano superiori a quei livelli di contribuzione che alia Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell’antico sistema”.
E dire che all’epoca il gettito era di 573 milioni di lire, circa 800 milioni di euro rivalutati ai giorni nostri. Attualmente sfiora 1,3 miliardi di euro, il 60 per cento in più.
In Francia, Irlanda e Regno Unito le religioni non ricevono contributi pubblici e devono ricorrere all’autofinanziamento.
Eppure non servirebbe arrivare a tanto. Basterebbe seguire il modello della cattolicissima Spagna: il contribuente decide a chi attribuire parte dell’imposta ma i soldi, se non esprime una preferenza, restano allo Stato.
Facendo lo stesso anche da noi, le casse pubbliche si ritroverebbero con un tesoretto da 600 milioni in più l’anno.
Anzichè abbassare il prelievo, come qualcuno vorrebbe fare, si potrebbe proporre una modifica delle intese bilaterali, a cominciare dalla quella con la Chiesa cattolica.
Un percorso lungo, certo, ma il momento è più che mai propizio: a giugno inizieranno gli incontri delle commissioni paritetiche fra Stato e singole confessioni religiose, chiamate ogni tre anni “alla valutazione del gettito della quota Irpef al fine di predisporre eventuali modifiche”.
Nessuno dei 17 governi che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo ha voluto modificare lo status quo. Ma visto che la situazione dei conti pubblici è grave, il premier Matteo Renzi – a caccia di risorse per attuare la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni – ha l’occasione per prendere in mano la situazione.
Anche se è facile immaginare che una proposta di revisione non troverebbe grande favore Oltretevere. Ma non è detto: in fondo papa Francesco ha impresso un nuovo corso.
Chissà , proprio lui che tante volte ha tuonato contro i privilegi della Chiesa di Roma, cosa ne pensa di una revisione dell’8 per mille.

Paolo Fantauzzi e Mauro Munafò
(da “L’Espresso”)

This entry was posted on sabato, Maggio 23rd, 2015 at 21:53 and is filed under Chiesa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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