PD, IL PARTITO CHE NON C’È: RENZI PRIMA VOLEVA LE PRIMARIE, ORA CHE COMANDA LUI NON SONO PIU’ NECESSARIE
SENZA UOMINI E SENZA SOLDI: SEI MESI DI RENZI HANNO SVUOTATO IL PARTITO
Un anno fa, di questi tempi, preparava la rentrèe dopo la pausa estiva alle feste dell’Unità di Forlì e di Reggio Emilia, nel cuore del popolo rosso, perchè il Pd era tutto da conquistare.
E sul tavolo da sindaco di Firenze si ammucchiavano le slide dell’agenzia Proforma sul buon governo della città , per dimostrare al mondo (e soprattutto all’inquilino di Palazzo Chigi Enrico Letta) che l’unica cosa a interessargli era la campagna per la rielezione a Palazzo Vecchio.
«Mi metto di lato», giurava con chi lo andava a trovare.
Il passo laterale di un anno fa, invece, ha portato alla crisi del governo Letta.
E oggi Matteo Renzi è alle prese con altri dossier: dagli asili nido e le isole pedonali al consiglio dei ministri del 29 agosto, la ripartenza del governo su giustizia, scuole, infrastrutture, il “segnale” richiesto al premier dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi nel vertice estivo di Città della Pieve, le riforme strutturali, da ora in poi meno battute su Twitter, meno cronoprogrammi irrealizzabili, si fa sul serio.
E poi il Consiglio europeo con all’ordine del giorno la nomina del ministro degli Esteri Federica Mogherini a vicepresidente della commissione Ue e alto rappresentante dell’Unione in politica estera, su cui Renzi ha speso tutto il capitale politico incassato con la vittoria alle europee di maggio.
Un nuovo cambio di marcia: il ritmo sfiancante dei primi cento giorni viene sostituito dall’andatura lenta del maratoneta. Mille giorni per trasformare l’Italia, ma intanto la fine dell’estate restituisce l’immagine di un premier sempre più solo al comando.
Nel governo, dove l’annunciata cabina di regia economica è per ora affidata all’autostima dei singoli che sono sicuri di farne parte, come il deputato Yoram Gutgeld che va in giro dicendo: «La legge di stabilità la scriverò io».
E nel partito, il Pd, che dopo sei mesi di doppio incarico renziano, premier e segretario, si ritrova con una inattesa valanga di voti che piomba su un partito svuotato di idee, uomini, partecipazione. E di risorse economiche.
Dal 22 febbraio, giorno in cui il governo Renzi ha giurato al Quirinale, la segreteria del Pd è dimezzata: in quattro (Maria Elena Boschi, Federica Mogherini, Marianna Madia, Luca Lotti) si sono trasferiti nei palazzi ministeriali.
Dopo vari tentativi, organigrammi compilati e poi bruciati, si è deciso di rimandare tutto a dopo l’estate.
E le sovrapposizioni tra partito e governo continuano: il responsabile economia di largo del Nazareno Filippo Taddei da mesi è dato in via di trasferimento nel gruppo di economisti di Palazzo Chigi. In attesa del trasloco è rimasto appeso il programma della festa nazionale del Pd a Bologna: con che ruolo collocare Taddei? Nulla di fatto.
I superstiti sono coordinati dal vice-segretario Lorenzo Guerini, di felpata scuola democristiana e grande capacità di ascolto, una camera di compensazione, lo sfogatoio di tutte le inquietudini che si agitano nel partito: litigi, ambizioni personali, angosce esistenziali, ansia di abbandono.
Non più incanalate nelle correnti e nelle famiglie tradizionali. Orfane dei leader di sempre, quasi scomparsi anche nel programma della festa nazionale del Pd a Bologna. Anna Finocchiaro? Non pervenuta. Gianni Cuperlo, l’ex sfidante di Renzi alle ultime primarie? Non c’è. Beppe Fioroni, Franco Marini? Nessun invito. Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani? Ci saranno, ma da comprimari.
E l’unico ad apparire da solo sul palco, a concludere la festa, inutile dire chi sarà . Succedeva così anche ai tempi dei segretari generali del Pci, in fondo.
«È tutto affidato a un’estrosa individualità : la sua», fotografa un renziano della primissima ora. I
l PdR è un paradosso: mai così ricco di voti (in percentuale, perchè in termini assoluti il primaro spetta al Pd di Veltroni nel 2008: altra epoca), mai così povero, e non per metafora.
Nel rendiconto del 2013 presentato due mesi fa dal tesoriere Francesco Bonifazi, avvocato fiorentino e deputato renziano, c’è una voragine di10,8 milioni di euro.
La fine del 2014 e il 2015 si annunciano di lacrime e sangue, con l’obiettivo di arrivare a un bilancio in pareggio, un’impresa che in scala minore ricalca la mission impossible del commissario governativo Carlo Cottarelli: taglio del quaranta per cento delle spese per servizi (373 mila euro se ne sono andati nell’ultimo anno soltanto per la gestione del sito web) e consulenze, nel 2013 hanno superato il milione di euro («un costo oggettivamente elevato», commenta in modo british Bonifazi).
Eliminare il mezzo milione di euro finito nell’organizzazione di assemblee nazionali tanto affollate quanto spesso politicamente inconcludenti, il milione per le spese della segreteria, il milione per le sedi nazionali di via Tomacelli e via del Tritone, oltretutto deserte.
La spending review di largo del Nazareno è imposta non solo da esigenze di risparmio, ma dalla fine dei rimborsi elettorali, il finanziamento pubblico che rimpinguava le casse dei partiti, già dimezzato quest’anno (per il Pd entreranno 12 milioni anzichè 24) e destinato a esaurirsi nel 2017.
Via libera ai finanziamenti alternativi, le sponsorizzazioni degli stand delle feste, la parola magica di ogni associazione privata, il fund raising.
Una mini-struttura era già stata messa in piedi un anno fa dalla segreteria Epifani, ma risulta inattiva.
Le cene di autofinanziamento vagheggiate da Renzi sono una goccia nel mare. E non fa ben sperare il bilancio della parallela fondazione Open (la ex Big Bang), costituita da Renzi a Firenze, che nell’anno di massima ascesa nazionale dell’ex sindaco ha raccolto poco più di un milione e ha chiuso in leggero passivo.
In compenso ha portato fortuna ai componenti del consiglio direttivo: una è diventato ministro (la Boschi), un altro si è trasferito a Palazzo Chigi con Renzi (il sottosegretario Lotti), il presidente Alberto Bianchi è stato nominato dal governo nel cda dell’Enel, il quarto nome è l’eminenza grigia del renzismo Marco Carrai.
Il modello del partito pesante di apparato è in via di estinzione come i dinosauri, per mancanza di cibo; la leggenda del partito leggero, agile, capace di funzionare grazie ai finanziamenti privati è tutta da scrivere, per ora.
La strada del due per mille è considerata da Bonifazi “aleatoria”.
Ma è un’emergenza che il PdR dovrà affrontare alla ripresa: in vista ci sono primarie, campagne elettorali regionali in autunno e in primavera, la necessità di consolidare e allargare il 41 per cento delle europee.
Per qualcuno, in realtà , questo è un obiettivo minimale, si dovrebbe fare molto di più: la cinghia di trasmissione, come si sarebbe detto un tempo, tra il leader, il governo e la società . «Condivido quello che dice Renzi: rivoluzionare i salotti, gli intellettuali, l’establishment. Ma per farlo serve un partito», spiega l’ex giovane turco Matteo Orfini, che nell’estate che si conclude ha festeggiato i quarant’anni e la nomina a presidente del Pd dopo aver contrastato per anni la scalata di Renzi alla leadership nazionale.
«Non possiamo pensare che faccia tutto da solo. Nel resto d’Italia, a livello locale, il Pd è ancora un partito respingente».
Poco ci manca per tornare a un antico schema, “a voi il governo, a noi il partito”, anche perchè intanto è diventato maledettamente difficile stabilire cosa si intende per “voi” e “noi” (prima erano gli ex dc e gli ex pci, ora chissà ).
Ma tanto basta per far preoccupare i protagonisti della rivoluzione renziana che si vedono accerchiati. «Eravamo come gli scozzesi di Braveheart, siamo finiti con gli inglesi che fingono di parlare come noi. Abbiamo vinto e ci siamo fatti colonizzare», sospirano.
Le primarie, benzina nel motore di Renzi quando c’era da dare l’assalto al quartier generale e considerate il dna del nuovo partito, non sono più un totem intoccabile: sono saltate in Piemonte con Sergio Chiamparino, non si faranno neppure in Toscana con la riconferma di Enrico Rossi per investitura diretta di Renzi in un’intervista televisiva. Anche in Emilia si cercava la candidatura di un discendente della Ditta post-Pci, fino allo strappo di Matteo Richetti, renziano pensante e autonomo, tra i pochissimi a dissentire nel voto sull’adesione del Pd al Pse.
E la dirigenza nazionale rischia di perdere un altro pezzo: la vice-segretaria del Pd Debora Serracchiani, appena nominata e già in regime di doppio incarico (è stata eletta solo un anno e mezzo fa presidente della regione Friuli-Venezia Giulia), potrebbe trasferirsi alla Farnesina al posto della neo-commissaria Ue Mogherini
Un triplo salto mortale, dalla regione al partito al governo, che spiega più di mille analisi l’essenza del partito renziano, specchio e laboratorio del metodo Renzi esportato nel governo.
Rapidità e improvvisazione, nessun gioco di squadra e ruoli interscambiabili tra Pd e ministeri perchè alla fine l’unico giocatore che conta è il Capitano.
Anche a costo di svuotare del tutto il più votato partito italiano.
Oppure di meditare, per l’autunno, una nuova riunione alla stazione Leopolda, per incontrare l’unico popolo che davvero Renzi porta nel cuore. Il suo.
Marco Damilano
(da “L’Espresso“)
Leave a Reply