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PEDOFILIA, UN BAMBINO SU DIECI VITTIMA DI ABUSI DURANTE L’INFANZIA, NELL’80% DEI CASI A MOLESTARLI SONO I FAMILIARI

IL DRAMMATICO RAPPORTO UE SULLE VIOLENZE AI BAMBINI SCOPERCHIA UNA FOGNA, CON LO STATO LATITANTE… E I PERBENISTI CHE SI SCANDALIZZANO SE UN IMMIGRATO PISCIA CONTROVENTO SULLA PEDOFILIA NON HANNO NULLA DA DIRE

Il padre di Clarissa L. ha cominciato a molestarla quando aveva dodici anni. Diceva di farlo per il suo bene. «Siamo parte di una razza superiore e questo è il mio dono per te».
Una presunta super-intelligenza che si fondava su un’ idea schifosa: «la società  è piena di tabù, il mondo vive stipato in una gabbia per polli e noi dobbiamo aprire la gabbia e abbattere i tabù, primo fra tutti quello dell’incesto».
Lo ha abbattuto il tabù e ha abbattuto anche Clarissa.   Per sei anni consecutivi.
Poi lei si è rivolta a un insegnante, quindi a uno psicologo, infine ai carabinieri, che sono andati ad arrestare il padre, che di mestiere insegnava matematica.
L’hanno condannato a sei anni e mezzo di galera. Ne ha passato uno ai domiciliari. «Dietro le sbarre, però, non è rimasto neanche un giorno. Ma la cosa che mi fa più male è un’altra. L’ultima frase che gli ho detto prima che salisse sul camper e provasse inutilmente a scappare alle forze dell’ordine è stata: “scusa papà , non ti volevo denunciare”».
I sensi di colpa. La vergogna. L’idea di avere rovinato la famiglia, anche quella mamma, professoressa anche lei, che giurava di non essersi accorta di nulla.
Così Clarissa non sapeva più se di questa storia – la sua – era la vittima o il carnefice. «Ci ho messo del tempo a rendermi conto di come sono andate le cose. Non avevo gli strumenti per arrivarci. Ma dopo avere ritrovato l’equilibrio l’ho denunciato una seconda volta, quando ho scoperto che aveva aperto un blog in cui adescava bambini e bambine». Lei era cambiata. Lui no.
Mentre andava alla polizia postale a denunciarlo le è tornato in mente il materasso dove qualche volta il padre – esattamente come faceva in camera, sotto la doccia, in cucina, sul camper, ovunque – abusava di lei.
Era in mezzo a un campo e per raggiungerlo bisognava attraversare un tunnel naturale fatto di arbusti. . «Attorno al materasso c’erano bambole e macchinine. E io a dodici anni con le bambole non giocavo più». Non è difficile immaginare l’orrore di quel luogo.
La parola che Clarissa usa più spesso per raccontare quegli anni è «confusione», come se il genitore pedofilo le avesse affondato un cucchiaio nella testa per mescolarle il cervello. Sei l’uomo che mi deve proteggere o sei un mostro?
«Alla fine non era tanto il sesso a farmi male, quanto questa gigantesca impossibilità  di capire».
Quante sono in Italia le bambine e i bambini come è stata lei? E che cosa facciamo per aiutarli?
Domanda che pretende una risposta sempre più urgente nei giorni delle polemiche sul degrado di Caivano e del Parco Verde a Napoli («gli abusi sessuali in famiglia in queste zone sono elevati a normalità », sostiene il garante dell’infanzia campano), degli arresti contro la pedofilia on line effettuati dalla polizia postale in tutto il Paese e dell’impegno condiviso tra la ministra delle pari opportunità  Maria Elena Boschi e la Garante Nazionale per l’infanzia, Filomena Albano, «per agire con tutti gli strumenti necessari per contrastare gli abusi sessuali sulle persone di minore età  e la pornografia minorile». Belle parole. Ma c’è qualcuno che conosce realmente le dimensioni di questo disastro e quindi lo affronta?
Il buco nero
Il rapporto dell’Unione Europea sul maltrattamento e le violenze sui bambini dice che tra il 5 e il 10% dei maschi e il 20% delle femmine è vittima di abusi sessuali durante l’infanzia. Una bambina su cinque. Un bambino su otto.
E nell’ 80% dei casi sono i familiari a molestarli: il padre una volta su due, la madre una volta su dieci, poi gli zii, i nonni, i conviventi della madre, i fratelli, infine gli amici.
Gli estranei rappresentano l’ 8,9% del problema.
Non c’è distinzione di classe. Dal notaio al barista è un orrore diffuso.
E i numeri italiani? Presumibilmente non sono molto diversi. Presumibilmente.
Un numero ufficiale non esiste, perchè non esiste la banca dati nazionale prevista dalla legge 36 del 2006.
«La verità  è che tutto ciò che riguarda i minori, non solo la pedofilia, non è monitorato e che c’è una disattenzione progressiva delle istituzioni, della politica e anche della società », dice Sandra Zampa (Pd), vice presidente della commissione infanzia.
Una disattenzione colpevole, per non dire criminale. «Non c’è la volontà  politica di affrontare la questione», dice don Fortunato Di Noto, esperto mondiale di pedofilia e fondatore dell’Associazione Meter.
«C’è un problema di percezione della portata della pedofilia nel nostro Paese. La si ritiene un fatto marginale. Però sappiamo tutti che non è così. Io in 13 anni ho accolto più di mille e trecento vittime di pedofilia qui ad Avola. E per cento che ne vengono ce ne sono altri cinquecento di cui non abbiamo idea».
Uno lo aiuti. Cinque si perdono. Sciorina una sfilza di dati spaventosi e racconta dell’infantofilia, l’abuso sui bambini con meno di tre anni, in crescita esponenziale. «Qualcuno ci prende per folli, ma siamo di fronte a un fenomeno enorme. E in Italia avremmo anche le leggi per affrontarlo, ma nessuno le applica. Mi domando se non sarebbe il caso di fare vedere a tutti le fotografie di questo scempio. Magari smuoverebbero le coscienze come il piccolo Aylan sulla spiaggia in Turchia. Invece qui nessuno reagisce».
E se non c’è l’istinto a agire per assecondare le ragioni del cuore, bisognerebbe farlo almeno per quelle del portafoglio.
La prima indagine nazionale sull’epidemiologia del maltrattamento all’infanzia voluta da Terre des Hommes e dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento all’Infanzia (Cismai) curata dall’Università  Bocconi di Milano, quantifica in 338 milioni e mezzo i costi diretti degli abusi sui bambini (ospedalizzazione, cura della salute mentale, costi per l’amministrazione della giustizia) e in oltre dodici miliardi quelli indiretti (cura della salute da adulti, criminalità  adulta, delinquenza giovanile, perdita della produttività  per la società ). Intervenendo tardi si producono due danni: adulti feriti e casse vuote.
La dottoressa Monica Micheli, addetta alla comunicazione del Cismai, giudice onorario e supervisore al Centro Aiuto al Bambino Maltrattato che nel comune di Roma ha assistito 1500 bambini e adolescenti in 18 anni, incarna fisicamente la distanza siderale che corre tra la volontà  dei singoli di affrontare il tema con coraggio e la sensibilità  pressochè nulla delle istituzioni.
«In febbraio siamo stati costretti a sospendere la nostra attività  per esaurimento fondi. Mancava il bando, che adesso finalmente è arrivato e che da settembre potrebbe consentirci di rimetterci al lavoro».
Il sistema va a singhiozzo. Le violenze proseguono. E Micheli non può che condividere la visione dei colleghi: «L’attenzione dello Stato verso il tema è prossima allo zero e continua a mancare una politica di investimenti».
Ma che vita hanno i bambini abusati? Dipende dalla gravità  dell’abuso. E da quanto è vicina a loro la persona abusante.
Genitori, parenti, religiosi, allenatori, maestri di scuola, bidelli. Tanto più l’abusante è prossimo all’abusato, quanto più il trauma è forte.
«C’è una rottura del rapporto di fiducia e gli effetti di quella rottura condizioneranno il modo in cui il bambino guarderà  il mondo. E le cose andranno peggio se la madre non crederà  all’abuso. Ma sui bambini si può fare un ottimo lavoro, anche se la cicatrice è destinata a rimanere. Lo psicologo da solo però non basta. È necessario che ci sia una rete».
E qui torniamo alla casella di partenza. A chi tocca costruire la rete? E come deve essere fatta? Come si aiuta davvero un bambino che – citando Sandor Ferenczi – cerca istintivamente il linguaggio della tenerezza e si trova a fare i conti con la violenza soffocante del linguaggio della passione di un adulto fuori controllo?
La Val d’Enza
C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità  assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza – 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali – hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori.
E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti.
È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà  politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi».
Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza.
Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso.
Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità  (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità  degli operatori.
«Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici.
La legge di Stabilità  del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato.
E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi.
Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te.
E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà  formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?
La nuova vita di Clarissa
Grazie all’appoggio terapeutico, oggi Clarissa ha 26 anni, è una splendida donna laureata e fidanzata, ha scritto un libro sulla sua esperienza che spera di pubblicare, fa la logopedista, ha completato la discesa verso il nucleo oscuro della sua vita interiore e sa con certezza che quell’ uomo che le sembrava capace di conoscere qualunque cosa, dai Fenici a Internet, per quanto suo padre era semplicemente un manipolatore malato.
E sa anche che la sua vita potrà  essere talmente piena da consentirle di avere, amare e proteggere un bambino suo, perchè, dice: «C’è stato un tempo in cui ero convinta che avrei potuto strapparmi l’utero con le mie mani. Adesso no. Adesso l’idea di un figlio non mi spaventa più».

Andrea Malaguti
(da “La Stampa”)

This entry was posted on domenica, Luglio 31st, 2016 at 21:36 and is filed under pedofilia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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