PERCHÉ IN ITALIA I RICCHI SONO SEMPRE PIÙ RICCHI: I LAVORATORI ITALIANI, UNICI IN EUROPA CERTIFICA L’OCSE, HANNO VISTO RIMPICCIOLIRSI I SALARI REALI. PUR CONTINUANDO A TENERE IN PIEDI LO STATO VERSANDO OLTRE L’80% DELLE TASSE
MENTRE PER I MULTIMILIONARI IL BELPAESE È ORMAI UNA SPECIE DI PARADISO FISCALE: SULLE RENDITE, A DIFFERENZA CHE SUL LAVORO, SI PAGANO TASSE BASSE. SE POI LE ACCREDITATE SU UNA SOCIETÀ HOLDING SI AVVICINANO A ZERO. PATRIMONIALE ZERO E CON LE IMPOSTE DI SUCCESSIONE TRA LE PIÙ BASSE DEL MONDO
Parlando di economia, l’affermazione «i ricchi sono sempre più ricchi» è l’equivalente del «non ci sono più le mezze stagioni». È vero, ma quanto?
E soprattutto: perché? Alla luce delle aggiornata classifiche dei miliardari italiani, cresciuti in un anno del 10 per cento (ovvero venti volte di più della crescita stimata del nostro Pil), abbiamo provato a rispondere a entrambe le domande.
Il principio generale, senza spoilerare troppo, è che negli ultimi quarant’anni il capitale ha ingaggiato una guerra totale con i lavoratori. In Italia, unici in Europa certifica l’Ocse, hanno visto rimpicciolirsi i salari reali. Pur continuando a tenere in piedi lo stato sociale versando, tra dipendenti e pensionati, oltre l’80 per cento delle tasse.
Mentre per i multimilionari il Belpaese è ormai una specie di paradiso fiscale dove, a differenza dei tax haven più celebri, si mangia bene e si vive meglio.
Partiamo da questo titolo di giornale: “Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale”. L’ho preso da Lotta Comunista, intenerito dai volontari che ancora lo vendono porta a porta? No, è del Sole 24 Ore.
Lo firma Riccardo Gallo, professore alla Sapienza con una lunga carriera di consulente economico per vari ministri perlopiù repubblicani, e dice una cosa piuttosto decisiva: tra il 2020 e il 2023 la quota di ricchezza che va al lavoro, ha perso 12 punti. Mentre quella che va agli utili è aumentata del 14 per cento
In parole povere: la torta è cresciuta, ma chi ha faticato per questo risultato non se n’è accorto perché il di più se lo sono pappato tutto i manager. Anzi, tra inflazione, pane e olio che costano il doppio, bollette lievitate, la working class sta decisamente peggio di prima.
Il secondo dato lo dobbiamo a Valeria Cirillo, dell’università di Bari: al 10 per cento dei dipendenti più ricchi va oggi il 40 per cento dei redditi nazionali contro il 28 che intascavano negli anni Ottanta. Detto altrimenti, la disuguaglianza delle buste paga è aumentata del 43 per cento a favore di chi già stava meglio
Anche Churchill, che temeva la competizione ideologica del modello sovietico, diceva: «Per difendere il capitalismo dobbiamo liberarci dei ricchi oziosi tassando eredità e patrimoni». Oggi quasi nessuno lo dice più.
Addentriamoci ora dentro al perché l’arricchimento è avvenuto. Mario Pianta, professore di politica economica alla Scuola Normale Superiore, nel confermare che «negli ultimi 30 anni c’è stato uno spostamento del 15 per cento della ricchezza dal lavoro al capitale», ne elenca alcune ragioni: «I ricchi veri, oltre ad accaparrarsi quote sempre più importanti di reddito, sono tali soprattutto per le rendite, immobiliari e finanziarie.
Le prime sono state favorite dall’abolizione dell’Imu e dagli sconti della cedolare secca al 21 per cento, un enorme regalo per chi ha tante case. Idem per la finanza, i cui capital gain sono tassati al 26 per cento.
Per non dire di un sistema fiscale che, negli anni 70, aveva un’aliquota massima al 72 per cento mentre oggi è del 43. Con molti meno scaglioni, per cui un impiegato paga quanto un milionario. Altra ragione: la fuga di capitali all’estero. La Ferrero è nata ad Alba ma ha sede globale in Lussemburgo e Giovanni Ferrero non è residente in Italia».
Nel Principato di Monaco vive da anni Francesco Giliberti Birindelli, un’autorità tra i fiscalisti di calciatori, imprenditori e vip vari. Non ha alcuna difficoltà ad ammettere che, negli ultimi vent’anni, «quasi tutti i Paesi hanno avuto politiche fiscali a vantaggio del capitale e a svantaggio del lavoro».
Però dice anche che, dalla fine del segreto bancario in Svizzera nel 2015, sono diminuiti i paradisi fiscali dove si potevano spostare i soldi senza neppure dover traslocare: «Si parla tanto del Lussemburgo, ma l’Italia per certi versi ormai non è da meno. Con il forfait da 100 mila euro voluto da Renzi per attrarre gli ultraricchi stranieri e oggi raddoppiato da Meloni.
O con le imposte di successione tra le più basse del mondo. Per cui, se sei un milionario di Mentone e vuoi fare una donazione importante, fai pochi chilometri e ti trasferisci in Liguria e allo Stato lascerai tra il 4 e l’8 per cento invece di una percentuale che può raggiungere il 60! Un bel risparmio, no?».
Il trucco di tanti astuti milionari è però un altro: la metamorfosi da persona fisica a persona giuridica. Ovvero, costituire una società holding, italiana o estera, per gestire il patrimonio finanziario. In pratica se invece di comprare io alcune azioni le faccio comprare alla società, quando mi staccheranno un dividendo non dovrò pagarci nemmeno il già basso 26 per cento.
Perché in molti Paesi i dividendi sono detassati dal 95 al 100 per cento e quindi, alla fine, in media verserò sì e no l’1 per cento di imposte.
Riassunto di Birindelli: «Chi fa così ha una leva, un vantaggio, di quasi il 25 per cento, su un comune mortale che investa in Borsa in Italia, come individuo e non come società». Chiunque, dice, può aprire società di questo tipo perché la Ue favorisce lo spostamento di capitali.
Ha ovviamente un costo ma, per patrimoni da pochi milioni in su, calcola a spanne il fiscalista, l’investimento si ammortizza subito. Oppure, se si vuol spendere meno, un altro modo per azzerare le tasse sui guadagni finanziari è di farli proliferare all’interno di polizze vita. Quello che è chiarissimo è che solo noi morti di sonno usiamo ancora i conti correnti o – i più ardimentosi – i depositi titoli.
Riepiloghiamo. Sulle rendite, a differenza che sul lavoro, si pagano tasse basse. Se le accreditate su una società holding si avvicinano a zero. Come se non bastasse, se appartenete al 7 per cento dei più ricchi, gente con redditi oltre i 76 mila euro, a dispetto di quel che prevede la Costituzione il sistema fiscale diventa regressivo, più guadagnate meno versate rispetto alle entrate.
Con il paradosso che se addirittura fate parte dello 0,1 per cento che di euro ne prende addirittura 520 mila, pagate meno tasse di un insegnante, un medico di base o qualsiasi appartenente del ceto medio. È la scandalosa scoperta di un recente paper congiunto Sant’Anna-Bicocca
Il professor Andrea Roventini, uno degli autori, spiega che in quei redditi altissimi «pesano di più le rendite finanziarie e quelle da locazioni immobiliari, tassate meno, oltre che la regressività dell’Iva e il minor peso dei contributi sociali». Sta di fatto che, per i più ricchi tra i ricchi, la pressione fiscale complessiva è intorno ai 36, contro i 46 dei comuni mortali.
Per livellare la situazione Roventini vede con favore una patrimoniale, come se n’è parlato al G20 di Rio o modello Oxfam Italia, dall’1 al 3 per cento di prelievo su chi ha patrimoni superiori ai 5,4 milioni di euro. Vale a dire – anche qui – lo 0,1 per cento della popolazione: 50 mila persone.
Il “normalista” Pianta è d’accordo. Idem lo storico Alfani («Il problema è che gli elettori sono sempre convinti, ed è Berlusconi il primo ad averci portato su quella strada, che dicendo patrimoniale si parli di loro, che li riguarderebbe, ma non è vero!») che aggiunge che dovremmo subito alzare le imposte di successione, uniformandoci al resto d’Europa.
Perfino l’Ocse ha consigliato una patrimoniale al nostro Paese. La Norvegia ce l’ha da molti anni e, al netto dei titoli sulla “fuga di milionari” dopo un aumento recente, nel 2023 i soldi raccolti han fatto toccare un nuovo massimo.
La Spagna, che l’Economist ha appena laureato economia più sana d’Europa, l’ha introdotta da due anni. Come ragionano di fare Francia e Gran Bretagna. Da noi la segretaria Pd Elly Schlein ha detto che ne può parlare, ma poi non ne ha più parlato.
Ricordate il titolo sul “travaso pazzesco” con cui abbiamo iniziato? Chiedo a Gallo se al quotidiano di Confindustria si siano distratti al momento di mettere in pagina una messa in stato d’accusa così inequivoca. Ride: «Macché, chapeau a loro». Lui – già collaboratore di La Malfa, Spadolini, Visentini – sarebbe molto favorevole a cambiare in radice la remunerazione: «I lavoratori, come già fanno gli alti dirigenti con premi di produttività, stock option e quant’altro, dovrebbero partecipare delle sorti dell’impresa. Non nella stessa entità, ma nella stessa concezione.
Essere pagati anche in azioni. Altrimenti i migliori, come già succede, fuggiranno tutti all’estero. E così, da trentesimi su sessantasette che eravamo nella lista di competitività generale delle nazioni, siamo sprofondati al numero 44.
Se ci limitiamo al mercato del lavoro ancora più giù (56). Per tasse quasi ultimi (61) e per finanza pubblica ultimi assoluti. Di recente, a parole, Maurizio Landini ha preso a scaldarsi di più. Ma io lo scavalco a sinistra!».
(da agenzie)
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