PRIVATIZZAZIONI BLUFF
NEPPURE TRIA CREDE A QUELLO CHE HA SCRITTO
Le privatizzazioni non sono più di moda. Ma tornano sempre comode per irrobustire con numeri costruiti ad hoc qualche malfermo progetto di riduzione del debito. E’ una vecchia storia, quasi un tic contabile che scatta nella zona Cesarini della legge di bilancio.
Ma il governo del cambiamento stavolta è andato oltre la tradizione recente che da Monti a Renzi conteneva in 5-6 miliardi annui le vendite previste (e sempre marginalmente realizzate), piazzando nella lettera di risposta alla Commissione europea sulla manovra la cifra di dismissioni per 18 miliardi nel 2019 (avete capito bene 18 miliardi nel 2019!).
Dismissioni che poi per carità “non riguarderanno i gioielli di famiglia, ma gli immobili pubblici”, ha precisato il vice premier Luigi Di Maio glissando sullo stato quasi comatoso in cui versa il mercato di qualsivoglia mattone.
Le privatizzazioni non sono più di moda, un po’ perchè il liberismo è in caduta libera e molto perchè a quasi trent’anni dall’avvio del processo con il leggendario meeting del Britannia nell’anno di grazia 1992 gli esiti appaiono come minimo misti.
All’epoca lo Stato dava lavoro al 16 per cento degli occupati, controllava l’80 per cento del sistema bancario, i trasporti, la telefonia, le utility, parte dell’acciaio, della chimica e via elencando, perfino l’industria del panettone.
I bersagli erano moltissimi.
La prima spallata la dette Giuliano Amato con le grandi banche, Ciampi e Prodi seguirono con i gruppi industriali, da Telecom alla Sme, dalla chimica di Stato alle Autostrade.
Nel 2010, vent’anni e oltre cento miliardi di ricavi dopo, la Corte dei Conti ha scritto in uno studio che le privatizzazioni hanno consentito si un recupero di redditività , ma grazie all’aumento delle tariffe di energia, autostrade e banche senza che a fronte ci fosse un proporzionale aumento degli investimenti.
E soprattutto senza che le dismissioni avessero portato a una riduzione del volume del debito nel frattempo più che triplicato.
Quasi prosciugato il serbatoio dei “gioielli” di famiglia, dal 2011 i progetti di privatizzazione hanno continuato a fare la loro parte nelle operazioni di “windowdressing” del bilancio pubblico puntando, sia sull’immobiliare, sia sul collocamento presso la Cassa depositi e prestiti di quote di aziende partecipate dallo Stato (Sace, Simest, Fintecna per esempio).
Così tentò di fare Monti nel 2012 con il Piano Grilli (dal nome dell’allora ministro dell’Economia, oggi ai vertici di JP Morgan) articolato nella creazione di tre fondi di cui uno destinato alla cessione di immobili di pregio per 4-5 miliardi nel 2013 all’interno di un progetto più ampio.
Così tentò di fare Letta con il Piano Destinazione Italia, 12 miliardi in tre anni. Così provò a fare Renzi prima di passare il testimone a Gentiloni.
Ora ritenta con volumi al cubo il governo gialloverde. Con esiti che è facile immaginare visti i precedenti.
Nel secondo governo Berlusconi l’allora ministro dell’Economia, Tremonti, portò a termine un piano di cartolarizzazione di immobili pubblici, in parte sedi di ministeri, in parte appartamenti di enti venduti a prezzi agevolati agli inquilini.
L’operazione (tecnicamente definibile di lease back) ha dato qualche beneficio immediato alle casse dello Stato, ma con un costo elevato nel lungo periodo a causa degli alti affitti che i nuovi proprietari hanno preteso dallo Stato per continuare ad occupare gli immobili.
Oggi gli esperti del mercato immobiliare dicono che la vendita di immobili di pregio nelle grandi città è “difficile ma possibile, mentre nei piccoli centri è proibitiva”. Inoltre il mercato degli investitori esteri è frenato dalle vicende politiche e dalla percezione di un accresciuto “rischio Paese”.
Forse neppure Tria crede a quello che ha scritto.
(da “Huffingtonpost”)
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