REDDITO DI CITTADINANZA, I POVERI E LA FINZIONE DEGLI OCCUPABILI
CAPRO ESPIATORIO DI SCARSE RISORSE E DI SCELTE SOCIALMENTE SQUILIBRATE
Sembra che il governo il Reddito di cittadinanza sia una sorta di “tesoretto” da cui attingere per finanziare altre misure, per non scontentare gruppi sociali al cui voto si tiene di più.
È legittimo preoccuparsi dei pensionati a reddito medio-basso il cui potere d’acquisto è stato ridotto dall’inflazione e dal caro energia, ma perché farlo a carico dei poveri, mentre si proroga il superbonus anche per i ricchi, si perdonano gli evasori “pentiti” e si offre una dilazione di cinque anni alle società di calcio per pagare i debiti contratti con il fisco?
I poveri “occupabili”, oltre a essere additati al disprezzo sociale come fannulloni che non hanno voglia di lavorare, sono messi in competizione, perdente, con qualsiasi altra categoria sociale si ritenga meritevole di un riconoscimento.
L’orizzonte temporale entro il quale possono contare di una garanzia di reddito per soddisfare i loro bisogni di base viene sempre più ristretto, senza che sia chiaro con quali risorse e politiche attive la loro occupabilità teorica verrà trasformata in occupazione (pagata decentemente) effettiva, stante la scarsa e territorialmente disomogenea performance dei centri per l’impiego e i risultati non entusiasmanti, sul piano occupazionale, del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), oltre alla scarsità di domanda di lavoro nelle regioni in cui sono più concentrati i percettori del RdC.
Tantomeno ci si preoccupa di che cosa succederà di loro se, scaduto il RdC, non avranno trovato una occupazione, o non sufficientemente remunerata, nonostante abbiano partecipato alle attività di formazione richieste. Un evento probabile per una parte rilevante di coloro che, secondo il governo, sono occupabili, e anche in tempi brevi.
Secondo questa definizione, infatti, sono occupabili tutti i maggiorenni sotto i 60 anni che non sono disabili e non hanno figli minorenni a carico. Definizione curiosa, che non trova riscontro né nella letteratura specialistica né nelle statistiche ufficiali, italiane e internazionali, ma che risponde al tentativo di contenere alcuni effetti disastrosi del considerare il sostegno al reddito una misura da destinare solo a chi non può lavorare per età o malattia, non anche a chi non riesce a trovare lavoro o a chi non guadagna abbastanza.
Per salvaguardare i minorenni dalla esclusione dal sostegno, almeno fino al 2024, sono stati così esclusi dagli “occupabili” i loro genitori, con il rischio che a questi non vengano offerte le opportunità di formazione e consulenza necessarie, anche se non sempre sufficienti, a un inserimento nel mercato del lavoro.
A prescindere dalla curiosa definizione di “non occupabilità”, anche quella di occupabilità rimane problematica nella sua astratta semplificazione. Come se non ci fosse differenza – nelle chance di trovare una occupazione, nei bisogni formativi e di consulenza e nel tempo necessario per essere efficaci – tra un trentenne diplomato o laureato e un diciottenne con la terza media o un cinquantacinquenne con qualsiasi qualifica, vivere in contesti con un mercato del lavoro dinamico o a bassa domanda di lavoro.
Il Reddito di cittadinanza va sicuramente corretto, sia nel disegno sia negli strumenti che devono accompagnarne l’attuazione, ma non solo, per quanto riguarda le politiche attive del lavoro e gli incentivi per i datori di lavoro che assumono un percettore impegnandosi a formarlo.
Bene che il governo si sia dato un anno per riformarlo o definire un nuovo istituto. Ma è partito con il piede sbagliato nel considerare una “occupabilità” concettualmente confusa e difficile da concretizzare un buon criterio per ridurre le risorse senza aver pronte le alternative.
Oltre a dare segnali problematici su come si pensa di configurare il nuovo istituto, è un modo di fare dei poveri “occupabili” il capro espiatorio di risorse scarse e di scelte socialmente squilibrate.
(da La Repubblica)
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