REFERENDUM ACQUA PUBBLICA: IN MANO AI PRIVATI STESSA EFFICIENZA E TARIFFE PIU’ ALTE
DUE RIFORME IN QUINDICI ANNI CI HANNO LASCIATO IN EREDITA’ UN SISTEMA IDRICO PIENO DI FALLE…PER FARLO FUNZIONARE SERVONO 64 MILIARDI DI INVESTIMENTI, MA IL MERCATO NON E’ SINONIMO DI SVILUPPO
Due italiani su dieci non hanno le fogne.
Dai rubinetti del sud, in un caso su due, esce acqua non depurata.
E i 300mila chilometri di tubi che trasportano l’oro blu alle case tricolori perdono per strada (dice il Censis) il 47% del prezioso liquido che raccolgono alle sorgenti.
Si può votare sì o no.
Sostenere che l’acqua è bene comune inalienabile o che per farla funzionare bene – vista l’inefficienza del pubblico – è meglio affidarla ai privati.
Una cosa però è certa: due riforme (incompiute) in 15 anni, prima la legge Galli e poi il decreto Ronchi, ci hanno lasciato in eredità un sistema idrico pieno di falle.
Per farlo funzionare servono (stima Utilitatis) 64 miliardi di investimenti nei prossimi 30 anni. Che qualcuno – Stato o mercato – dovrà mettere sul tavolo.
Cosa succederà consegnando nelle mani dei privati – ancorchè sorvegliati da un’authority fresca di nomina – la gestione (proprietà e reti rimarranno pubbliche) di questa montagna d’oro e del ricco business delle bollette?
Qualche parziale risposta ce la dà la storia dei primi 15 anni di semi-liberalizzazione degli acquedotti tricolori.
Un esercizio che consente di far piazza pulita di qualche luogo comune e spiegare, cifre alla mano, cosa potrebbe capitare al servizio idrico e alle nostre bollette una volta traghettati del tutto nel mondo del profitto.
Il pubblico non funziona. Falso (almeno in parte).
L’acqua italiana è ancora in buona parte in mano agli enti locali – 54 Ambiti territoriali ottimali (Ato) su 92, più altri 13 affidati a multiutility a forte presenza pubblica – e nel mazzo c’è di tutto.
Enti inefficienti trasformati in poltronifici e macchine da voti sul territorio.
Ma anche aziende che funzionano come orologi: Milano ha l’acqua (pubblica) meno cara d’Italia e perde dai tubi 11 litri su 100, livelli quasi tedeschi.
L’Acquedotto pugliese, una volta simbolo della malagestio degli enti locali, è diventato oggi un’azienda sana che investe, promossa a più riprese persino dalle arcigne agenzie di rating. La Smat di Torino è uscita alla grande da uno studio comparativo sull’efficienza pubblico-privato dell’Istituto Bruno Leoni, think tank iper-liberista.
Tra i privati (basta chiedere ai cittadini di Agrigento) ci sono gestioni che faticano ancora a portare l’acqua ai rubinetti tutti i giorni della settimana.
E in fondo persino Parigi e Berlino, dopo aver provato sulla loro pelle gioie e dolori dell’acqua privata, hanno deciso di fare marcia indietro rimettendo le mani sulla gestione dei loro acquedotti.
Tariffe più alte con i privati. Vero.
Ma con una parziale spiegazione. Dal 2002 al 2010, con lo sbarco del mercato negli acquedotti, le bollette degli italiani sono cresciute del 65%.
Nove anni fa ogni italiano pagava in media 182 euro l’anno, oggi siamo a 301.
Colpa della privatizzazione? A guardare la classifica delle città più costose, verrebbe da dire di sì: 21 dei 25 Ato più cari d’Italia sono in mano a privati o in gestione mista.
I cittadini di Latina lamentano aumenti fino al 3000% dopo il parziale ritiro del pubblico, rialzi a tre cifre si sono registrati anche in Liguria e Toscana.
Un’enormità .
La ragione, sostengono i diretti interessati, è semplice: le bollette più alte sono quelle che scontano i maggiori investimenti. I privati ne mandano in porto in media l’87% di quelli previsti (che però faticano a tradursi in reali recuperi d’efficienza, dice il Forum dei movimenti per l’acqua).
Il pubblico molto meno del 50%.
Un po’ perchè mancano i fondi, ma pure per evitare impopolari aumenti delle bollette.
Il saldo dare/avere dei primi 15 anni di liberalizzazione idrica è però sconfortante: negli anni ’90 l’Italia dell’acqua pubblica – all’epoca pagava Pantalone, alias lo Stato, attraverso la fiscalità – investiva ogni anno 2 miliardi sui suoi acquedotti.
Oggi siamo scesi a 700 milioni.
Il nodo di investimenti e controlli.
Da dove arriveranno allora i 64 miliardi necessari per rimettere in sesto i tubi d’Italia?
Pubblico o privato, meglio rassegnarsi: lo Stato, calcola il Censis, sarà in grado di mettere sul piatto circa il 14% di questa cifra. Il resto, se si vorrà spenderlo, dovrà arrivare dalle tasche della collettività .
Solo i lavori previsti tra il 2011 e il 2020, calcola Utilitatis, le faranno salire del 18% portandole comunque, assicura l’organizzazione delle utility nazionali, ben al di sotto della media dei prezzi pagati nel resto d’Europa.
I privati scaricheranno i costi sull’utente finale.
Comuni o enti locali – già oggi in condizioni finanziarie da incubo – potranno al limite tagliare investimenti altrove o finanziarsi su altre voci del bilancio pubblico.
Alla fine però il conto lo salderanno sempre i cittadini.
Chi controllerà il mercato dell’acqua che uscirà dal referendum?
Per vegliare sul settore è stata appena creata – con colpevole ritardo – un’authority.
I cui poteri però sono ancora in buona parte da definire.
Il problema – vista la stretta correlazione tra quantità e bontà degli investimenti e aumenti delle bollette – sarà di dotarla degli strumenti necessari per una reale attività di supervisione. La torta in ballo vale 64 miliardi e ha scatenato l’appetito di molti profeti (non proprio disinteressati) del libero mercato.
E visti i risultati, anche tariffari, delle privatizzazioni degli altri monopoli naturali italiani, non c’è da essere troppo ottimisti.
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