REMO, GIOVANNI, BEL E GLI ALTRI: IL NATALE DEI CLOCHARD A MILANO
LE STORIE E LE VITA DI STRADA DI CHI VIVE TRA SPERANZE E DISILLUSIONI
A piazza Affari dorme, sdraiato su un cartone, con il suo zaino come cuscino. Chiede le monete a chi entra in Borsa per lavorare.
«Ormai quelli della finanza mi conoscono tutti», dice. Il giorno di Natale, verso sera, siederà anche ai tavoli allestiti da Progetto Arca e Mia – Milano in azione, che organizzano la grande cena per 250 clochard davanti a palazzo Mezzanotte.
Remo è un omone di stazza imponente, ha 44 anni. Nato a Baggio, con dodici fratelli. Papà muratore e la mamma a casa con i figli. «Dei parenti nessuno naviga nell’oro, ma io sono l’unico per strada», racconta con occhi dignitosi. Intorno a Piazza Affari lo conoscono tutti.
Un milanese che lavora in banca la vigilia di Natale gli ha regalato un borsone nuovo, grande e nero, dove ci stanno insieme il sacco a pelo e la coperta. «Più comodo dei sacchetti che usavo prima …», ringrazia.
Non si vergogna della vita che fa, Remo: niente dormitorio («La strada è la mia casa ormai»), pezzi di pizza e scatolette di tonno che gli regalano.
Cerca di risalire la china per sua figlia, che ha quattro anni: «Penso sempre a lei. Vista la mia situazione, non me la fanno incontrare quasi mai. Ma spero che le cose cambino».
Da qualche tempo ha iniziato a collaborare con un gruppetto di pensionati volontari che distribuiscono pasti alle persone senzatetto.
«Mi chiamano sul cellulare, verso le due, tutti i giorni. Io li raggiungo. Mangio grazie a loro e poi inizio a dare panini e piatti caldi a quelli che conosco e vivono per strada». Storie di persone cui fa male parlare del passato: «Non ho fotografie di quando ero ragazzino, e neanche ricordi, sono dolorosi perchè ero più felice, prima».
Giovanni, 57 anni, arrivato adolescente da Palermo e cresciuto a Baggio, è più rassegnato. «Ho fatto di tutto, pulito i bagni in Centrale, servito birre in un bar».
Poi si è ammalato di sclerosi multipla: «Si fa presto a rotolare in basso», dice.
Gli hanno regalato una sedia a rotelle e una cagnolina. Ha i cartoni in via San Pietro all’Orto: «Ai dormitori non mi accettano il cane, preferisco stare fuori ma con lei».
A volte la delusione prende il sopravvento. Ed è una faccia del disperato bisogno di riscatto.
«Non mi chiedere che cosa mi piacerebbe fare, non sono più quel bambino di sette anni che sognava e neanche quello di venti, laureato in geologia al mio Paese – dice Belrhalia Abdelfattah, 43 anni, guardandoti fisso negli occhi –. Io voglio solo lavorare, mi piace lavorare, mi va bene qualunque cosa». Belrhalia è speciale. Cresciuto nel Marocco del Nord da una famiglia che è riuscita a far studiare tutti i figli, andato in Germania perchè a casa non trovava lavoro.
«Volevo parificare la laurea. Per pagarmi gli studi facevo qualunque tipo di lavoro – spiega in buon italiano –. Ad un certo punto non ce l’ho più fatta. Ho avuto anche problemi con i documenti».
Tre anni fa è arrivato in stazione Centrale. Da solo, su un treno notturno. Ha iniziato a dormire per strada, poi al centro di via Sammartini, poi ancora per strada.
Infine, di recente, si è sistemato un po’ meglio: «Ho trovato il vagone di un vecchissimo treno abbandonato, vicino ad uno scalo – dice senza voler precisare dove –. Ci ho sistemato delle coperte, a volte la polizia viene a controllare me e gli altri. Ma mi conoscono, mi lasciano rimanere».
Dal 2 gennaio sarà nella ex scuola di corso di Porta Vigentina 15 dove un gruppo di volontari, gli «Emergenza freddo», ha avuto il permesso di allestire un dormitorio temporaneo, solo notturno, per clochard. Belrhalia sarà ospite, ma li aiuterà anche a gestire la struttura.
Se gli chiedi qual è la cosa più preziosa che ha, estrae dal portafoglio la tessera della biblioteca comunale di Crescenzago.
«Ci vado tutti i giorni — racconta -. A volte trovo i libri che mi piacciono tanto, di geologia, sui minerali, sulla terra, le rocce. E l’universo».
Alza lo sguardo, guarda lontano: «Stasera vado alla cena in piazza Affari. Se ci saranno le stelle, il desiderio che esprimerò è un telefono con whatsapp, per comunicare via wi-fi con casa. Non posso mai chiamare la mia famiglia, gli amici che non sento da una vita — abbassa lo sguardo -. Vorrei mandare loro una foto del Duomo. La difficoltà più grande, oggi, è che non ho nessuno con cui parlare».
Elisabetta Andreis
(da “Il Corriere della Sera”)
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