RENZI BLINDA IL DECRETO CHE RICALCA LA PROPOSTA DI FORZA ITALIA E DELLA CONFINDUSTRIA
DECRETO POLETTI SUL LAVORO: “PRONTO AD APPROVARLO CON CHI CI STA”…E CON LA MINORANZA PD LO SCONTRO NON RIENTRA
Sul dl Poletti smotta il Pd, ma Matteo Renzi non si smuove di un millimetro.
La tattica del segretario-premier è sempre la stessa. Se c’è discussione interna, se la variegata minoranza si agita, il leader chiede il voto in direzione, si fa approvare la relazione a maggioranza e va avanti.
I voti in direzione ce li ha, anche se oggi dopo un dibattito concentrato più sul contestato decreto lavoro che sull’ordine del giorno che parlava di riforme costituzionali, i numeri sono stati più risicati. E’ finita con 93 sì, 8 astenuti e 12 contrari. C’erano degli assenti.
Ma tanto basta al premier per non demordere: il dl Poletti, che ha appena iniziato il suo iter in commissione Lavoro alla Camera, è blindato, per come la vede il governo.
Anche a costo di approvarlo con i voti di Forza Italia, partito che pur dall’opposizione applaude all’iniziativa del governo Renzi su contratti a termine e apprendistato.
Oggi è arrivato anche il plauso di Confindustria e del governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Mentre, insieme alla minoranza Pd, si agitano i sindacati, dalla Cigli di Susanna Camusso alla Cisl di Raffaele Bonanni fino a Maurizio Landini della Fiom, che finora ha sempre avuto un miglior rapporto con il premier Renzi ma che sul dl Poletti è sul piede di guerra.
Soprattutto il decreto della discordia è la prima vera grana di Renzi in quel Pd che ha conquistato a mani basse a dicembre.
Perchè sul dl Poletti la variegata minoranza del partito si è unita miracolosamente: cuperliani, Giovani Turchi, bersaniani, dalemiani, tutti a chiedere una modifica del testo varato dal governo, che elimina la causale nei rinnovi dei contratti a tempo (di durata massima 36 mesi), elimina la pausa obbligatoria tra un rinnovo e l’altro e non obbliga le imprese ad assumere gli apprendisti al termine dei 36 mesi.
Un’unità della minoranza che non si vedrà nel voto finale in direzione. I 12 voti contrari sono stati infatti espressi da Pippo Civati e dagli esponenti a lui vicini; le 8 astensioni sono arrivate da alcuni esponenti dell’area Cuperlo (oltre allo stesso Gianni Cuperlo anche Nico Stumpo, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre, Guglielmo Epifani, Francesco Verducci, Michela Campana, Barbara Pollastrini).
Diversi altri membri della Direzione non hanno invece partecipato alla votazione: tra di loro, i bersaniani Stefano Fassina ed Enza Bruno Bossio, il lettiano Francesco Boccia.
Però in Parlamento la situazione è diversa, perchè lì, almeno in partenza, i rapporti di forza tra renziani e non renziani non rispecchiano gli equilibri di maggioranza-minoranza in direzione.
Di certo, in commissione Lavoro gli esponenti di minoranza sono di più rispetto ai renziani.
Nè sembrerebbe che un eventuale coinvolgimento di esponenti di minoranza in segreteria Pd possa portare ad un ammorbidimento delle posizioni.
Anche perchè l’indicazione di Renzi di affidare i ruoli di vicesegretario ai fedelissimi Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini fa storcere il naso a tutti in minoranza, anche a chi — come il Giovane Turco, Matteo Orfini — poteva rappresentare una personalità di possibile inclusione in squadra, almeno nei disegni del premier.
E comunque anche sul ticket Serracchiani-Guerini, Renzi non cede. “Il congresso lo abbiamo vinto noi, la maggioranza non si può stravolgere”, spiegano i suoi.
“Alla fine della discussione votiamo, perchè discutere e votare è caratteristica del Pd”, dice Renzi in direzione, dove sa di vincere senza sforzi.
Il punto però è che si pone lo stesso obiettivo anche in vista della discussione in Parlamento, proprio come ha fatto sull’Italicum, altra prova di forza verso la recalcitrante minoranza interna, che però non si è mostrata compattissima sulla legge elettorale.
Il dl lavoro è altra storia o almeno così viene spiegato. Perchè sul dl lavoro la minoranza pensa di recuperare almeno un pezzo del ‘vecchio feeling andato’ con la base del partito.
Esattamente lo stesso calcolo che, dal punto di vista opposto, si fa Renzi. Convinto di riuscire a convincere sulla bontà della proposta.
“Leggo discussioni e ultimatum sul lavoro, che capisco poco. Non è una parte a piacere, il pacchetto sta insieme”, sostiene il segretario-premier in riferimento al dl sui contratti a termine già approvato e alla legge delega sui contratti di inserimento (e non solo) da approvare in Parlamento e con tempi più lunghi.
Fassina glielo dice chiaro e tondo: “La proposta sul mercato del lavoro è la proposta della destra, la proposta di Sacconi e di Forza Italia. Se mi si dice che per esigenze di compromesso dobbiamo prendere il pacchetto della destra ne discuto. Sono disponibile alla mediazione politica. Ma non sono disponibile alla umiliazione intellettuale”.
Se ne capirà di più la settimana prossima, quando i deputati Dem della Commissione Lavoro incontreranno il ministro Poletti.
Certo, trovarsi di fronte a un premier che va avanti come un treno pone problemi seri anche alla minoranza, che si vede già avviata verso un terribile bivio tra voto contrario e responsabilità di spaccare il Pd oppure voto a favore e resa.
E le cose andrebbero anche molto peggio se il governo dovesse porre la questione di fiducia, il che però è improbabile a meno che Forza Italia non decida di passare in maggioranza a tutti gli effetti: impossibile in periodo di campagna elettorale per le europee.
Però votare il dl Poletti sarà possibile eccome per i berlusconiani, già pronti sul tema.
“Eviterei di definire la proposta ‘di destra’: non sono vicino alla Cooperative rosse, ma l’ha presentata Poletti…”, sottolinea in direzione Paolo Gentiloni, che spezza lance a favore del premier osando anche linguaggi coloriti. “In giro, mi dicono ‘onorè, no glie rompete er… a Renzi’. Per dire: fatelo lavorare. Stiamo attenti a non apparire noi del Pd come quelli che sfogliano il carciofo di questo pacchetto, della serie togli quella parte che non va bene, ecc. Io sono d’accordo con Matteo su dl lavoro: non è un optional, fa parte di un pacchetto…”.
E’ insomma il segnale a Confindustria, scontenta della scelta del governo di tagliare solo l’Irpef per i lavoratori e non l’Irap per le imprese.
Renzi va avanti: la direzione del Pd ha deciso così, spiegano i suoi.
(da “Huffingtonpost”)
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