“RICORDO LE VOCI DEI BAMBINI CHE GRIDAVANO”: IL RACCONTO DI CHI E’ SOPRAVVISSUTO AL NAUFRAGIO DEL 3 OTTOBRE
“OGNI ANNO VENIAMO A LAMPEDUSA E QUANDO MORIREMO VERRANNO I NOSTRI FIGLI. E’ IMPORTANTE MANTENERE VIVA LA MEMORIA”
“Dina, 12/10/1991 – 03/10/2013”, è il tatuaggio scolpito in nero sulla pelle di Rahel Shewit, sono le date di morte e di nascita di sua nipote. “Dina era la figlia di mia sorella, è stata la prima a vedere le luci di Lampedusa in lontananza, quando tutti pensavano di avercela finalmente fatta”, racconta asciugandosi la guancia dal rivolo di una lacrima. La nipote viaggiava da sola, la madre era rimasta in Eritrea.
“Sapevo per certo che Dina stava su quella barca, aspettavo solo che arrivasse. Mi aveva chiamata poco prima di imbarcarsi, mi aveva detto ‘zia sto per partire’. Non l’ho mai più vista, né in vita né da morta”. Rahel non era mai venuta a Lampedusa prima dell’anniversario del 2021, da allora è sempre tornata per ricordare quel giorno. “Venire qui mi fa sentire meno sola” – continua – “oggi poi è un giorno particolare per me: hanno finalmente confermato che è stato trovato il corpo di Dina. Non so ancora dove si trovi, ma sono arrivati i risultati dell’esame del dna, e c’è un corpo con lo stesso dna di mia sorella”.
Sono circa venti i dispersi presunti del naufragio del tre ottobre 2013 a Lampedusa, che causò la morte accertata di 368 persone. Venti corpi non sono mai stati rinvenuti, o se lo sono stati, il loro dna non è stato preso o è stato perso nel buco nero di un vuoto normativo che legiferi la raccolta di dati post e ante mortem delle persone migranti. Oggi, undici anni dopo quel giorno, Rahel avrà finalmente una tomba dove poter andare a trovare la nipote Dina.
Rezene Hagos, anche lui eritreo, adesso vive in Svizzera. Aveva ventidue anni quando lasciò il suo paese e di quella maledetta notte ricorda ancora tutto. “Sento spesso le voci dei bambini che gridavano e piangevano, e le preghiere incessanti degli adulti. Quando il capitano ha spento il motore eravamo vicinissimi a Lampedusa, ricordo le luci all’orizzonte. Nella notte una barca che pensiamo fosse della guardia costiera si è avvicinata, noi eravamo ancora tutti vivi, ma ci hanno detto che sarebbero tornati a soccorrerci la mattina seguente. Colui che stava al timone allora decise di incendiare una coperta, per paura che non tornassero. Quando abbiamo visto la vampata abbiamo pensato la barca stesse prendendo fuoco. Allora ci siamo spostati tutti da un lato, e da lì la barca si è ribaltata. In acqua c’erano molti bambini, i genitori, intere famiglie. Ricordo le madri che urlavano i nomi dei figli, ricordo le persone che sono finite affondò insieme con la nave. Mio zio stava sottocoperta ed è rimasto bloccato dentro la nave che si riempiva d’acqua sempre più velocemente”, racconta a Fanpage.it.
“Appena abbiamo toccato terra stavamo tutti male, non capivamo niente. Ma ero certo, e lo sono ancora, che se i soccorsi fossero arrivati subito ci saremmo salvati”, conclude.
Yossef Gurja, invece, aveva sedici anni ed era fuggito da solo dall’Eritrea. “Ho viaggiato 12 ore a piedi dall’Eritrea dall’Etiopia, lì sono rimasto tre anni, poi mi sono spostato in Sudan dove sono rimasto per nove mesi. Per ultimo ho raggiunto la Libia, lì sono stato rinchiuso nei campi di lavoro per tre settimane. Ho pagato 1500 dollari per fare quel viaggio”, racconta.
“Ricordo che una volta a bordo il comandante e una trentina di persone decisero di scendere dall’imbarcazione – continua – il mare era troppo mosso e la situazione era già terrificante. Ma per me era difficile, ormai ero salito a bordo, avevo pagato, non potevo tirarmi indietro. Ci abbiamo messo 24 ore prima di vedere l’Italia, siamo partiti alle tre e mezza del mattino, esattamente quando, il giorno dopo, la barca si è ribaltata”, quella stessa barca che adesso Youssef ha tatuata sul braccio: un’onda la avvolge, e poco più in basso ha inciso quella fatidica data.
Adesso vive in Norvegia, ha ricostruito la sua vita lì, ha ottenuto la cittadinanza e ha un passaporto che gli permette di viaggiare, ma non di tornare a trovare la madre in Eritrea. “Ho paura di tornare – ammette – ho il terrore di restare bloccato lì e che non mi facciano ritornare in Europa”.
Poi sorride, mostra le foto delle cerimonie degli anni passati, e dice: “Ogni anno continuiamo a venire qui a Lampedusa e quando moriremo verranno i nostri figli. È importante mantenere viva la memoria, perché quello che è successo a noi non riaccada”.
Dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), sono almeno 1.452 i morti e dispersi nel Mediterraneo, con una proiezione a fine anno di poco inferiore a 2 mila vittime. Nel decennio dal 2014 al 2023 si stima che nel nostro mare abbiano perso la vita almeno 29mila persone. Di fronte a questi numeri, la memoria diventa un atto necessario per chi resta, ma anche l’espressione di una responsabilità specifica: fare testimonianza per rammendare quello che è stato promesso e mai mantenuto.
(da Fanpage)
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