RICORSO ALL’ONU CONTRO ITALIA, MALTA E LIBIA: “VIOLANO IL DIRITTO DI ASILO DI CHI SCAPPA DALLA LIBIA”
IL CASO E’ QUELLO DEL 18 OTTOBRE 2019
Un ricorso al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite sul ruolo di Italia, Malta e Libia nella violazione del diritto di lasciare il Paese nordafricano e nella negazione dei diritti dei richiedenti asilo. A presentarlo sono due persone che hanno provato ad arrivare in Europa attraverso la rotta migratoria più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo centrale — e non ci sono mai riuscite: a ottobre dello scorso anno erano a bordo di un barchino in difficoltà nella zona di ricerca e soccorso di competenza di Malta, a poche miglia da Lampedusa.
Ma nè le autorità maltesi, nè quelle italiane, pur avvisate, sono intervenute.
È invece intervenuta una motovedetta libica, finanziata con i fondi della cooperazione italiana, che ha riportato le persone a bordo, in fuga dalla Libia, di nuovo nel Paese nei cui centri di detenzione si consumano, dice l’Onu, «orrori indicibili» sui migranti.
Un Paese in guerra e dove di certo non è possibile fare domanda di asilo e protezione internazionale.
Un ricorso che arriva nel giorno in cui viene diffusa dall’Organizzazione Internazionale delle migrazioni la notizia di tre persone di nazionalità sudanese uccise, e di altri cinque ferite in una sparatoria a Khums, a est di Tripoli. Stavano sbarcando dopo essere stati intercettati in mare dalla cosiddetta Guardia Costiera libica. Forse avevano provato a fuggire dopo aver toccato terra.
Ecco, allora, in quelle morti ancor più il senso del ricorso all’Onu.
Il diritto di due migranti «di lasciare la Libia» — questa è la tesi — «è stato violato dall’intercettazione e dal ritorno forzato in Libia effettuati dalla Guardia Costiera libica con la cooperazione delle autorità italiane e maltesi», spiegano l’associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e dal Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS), che si occupano degli aspetti legali del ricorso.
Italia, Malta e la Libia starebbero quindi — si sostiene nel ricorso — violando gli obblighi derivanti dal diritto internazionale: il diritto alla vita, il divieto di tortura, trattamento disumano e degradante, il diritto alla libertà , incluso il divieto di arresto o detenzione arbitraria o illegale, ma anche il «diritto di lasciare qualsiasi Paese» del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, «attraverso la detenzione arbitraria e illimitata, le ripetute intercettazioni e i respingimenti delegati effettuati dalle autorità libiche».
L’accusa, per Italia e Malta, è pesante: «hanno contribuito agli abusi anche con l’ampio sostegno tecnico, economico, logistico e politico fornito alla Libia, rendendola il principale avamposto per il contenimento dei flussi migratori verso l’Europa, e con il loro ruolo nel delegare alle autorità libiche l’operazione di salvataggio del 18 ottobre 2019», operazione che si è conclusa con quello che viene definito «respingimento» dei ricorrenti verso Tripoli.
L’identità dei ricorrenti — questa la richiesta dei legali anche allo stesso Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite — non viene diffusa, per tutelarne la sicurezza. «È possibile solo dire che si tratta di due persone somale, che evidentemente avrebbero avuto diritto alla protezione internazionale», spiega Cristina Cecchini, avvocata di Asgi e una delle rappresentanti legali dei ricorrenti.
Due persone che invece sono state riportate in Libia e che quella domanda, in terra europea, non l’hanno (ancora) mai potuta presentare.
Il caso risale al 18 ottobre 2019 e il copione è quello cui il mondo sta assistendo (assai distratto) sempre più anche nelle ultime ore (con buona pace dell’ipotesi delle ong come pull factor, fattore di attrazione, visto che non ci sono navi umanitarie al momento nel Mediterraneo, e anche nonostante la pandemia di Coronavirus): partenze continue dalla Libia e imbarcazioni in difficoltà nelle acque tra il continente africano e quello europeo.
A contattare nel primo pomeriggio l’organizzazione Alarm Phone — il progetto creato nel 2014 da una rete di attivisti e attori della società civile in Europa e Nord Africa che è diventato un osservatorio di emergenza che segnala pubblicamente le situazioni di crisi nel Mediterraneo centrale — è un’imbarcazione sovraffollata in difficoltà con a bordo circa 50 persone. È nella zona di ricerca e salvataggio (SAR) di competenza maltese, e Lampedusa, in Italia, a 41 miglia da loro, è il “porto sicuro” più vicino.
La Valletta e Roma vengono immediatamente informate di quello che in gergo si chiama evento SAR. Il pericolo è «estremo», ricostruiscono Asgi e Cihrs. Ma Malta e Italia non si muovono. Anche la Libia viene informata — non certo dai migranti — e a sopraggiungere (in una zona Sar non di sua competenza) è la Guardia Costiera libica, con un’imbarcazione che con l’Italia qualcosa a che fare ce l’ha: è la motovedetta Fezzan — donata da Roma «nell’ambito della cooperazione italo-libica» — a intercettare il barchino che nel frattempo comincia a imbarcare acqua.
Risultato: «i sopravvissuti, compresi i ricorrenti», vengono riportati in Libia.
A Tripoli, a 110 miglia da dove sono stati intercettati. In quello che non è per certo un “porto sicuro”, un place of safety ai sensi del diritto internazionale. E infatti. «Arrivati in porto sono stati fatti sbarcare con la forza e hanno subito ulteriori maltrattamenti per costringerli a rientrare in un Paese da cui avevano disperatamente cercato di fuggire», spiegano Asgi e Cihrs.
Mariagiulia Giuffrè di Asgi la chiama «sottile cooperazione internazionale». È la cosiddetta esternalizzazione (portata avanti dall’Europa tutta) delle frontiere a sud. A pagarne le conseguenze, questa la tesi, i diritti umani di chi cerca di raggiungere l’Europa. Ecco la ragione del ricorso alle Nazioni Unite. «La strategia è stata quella di scegliere un organo universale, perchè una decisione potrebbe portare a una ricaduta di più ampio respiro sulla responsabilità dei tre stati», racconta Cristina Cecchini.
«La questione dell’esternalizzazione delle frontiere ma anche degli accordi e dei finanziamenti alla Libia è ormai ampiamente discussa, è vero», prosegue. «Ma non si arriva mai al nocciolo delle responsabilità . Ecco: chiediamo in primis il riconoscimento della responsabilità di questi tre Stati».
Con ruoli diversi: l’Italia a partire da quel memorandum con la Libia del 2017 che di fatto ha reso i libici «interlocutori nel Mediterraneo», rinnovato ancora una volta anche da questo governo giallo-rosso con la nebulosa promessa di modifiche a tutela dei diritti umani di cui ancora non si vede traccia.
La Valletta a partire dal suo personale accordo con Tripoli di lunga data, di cui fino a ora non si era avuta notizia e che ora ha ammesso: quello grazie al quale ai migranti dà la caccia, con «pattugliamenti congiunti» con i libici, con i soldi europei e anche con imbarcazioni private, «con violazione esplicita del diritto del mare», dice Cecchini.
L’Onu parla in questo caso di una regolazione dei respingimenti illegali. E la Libia, che non avrebbe altrimenti interesse a tenere e riportare queste persone sul suo territorio, evidentemente privo di strutture — e che non è neanche ai sensi del diritto internazionale un “porto sicuro” — se non quello degli accordi e dei soldi che vengono dall’Europa, spiega Mariagiulia Giuffrè.
La tempistica del ricorso non è prevedibile, ma entro qualche mese si saprà se sarà ritenuto ammissibile o meno dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite.
E precedenti sull’esternalizzazione e su quelli che vengono definiti «respingimenti indiretti», al momento, non ce ne sono. «Abbiamo un caso pendente su un respingimento privatizzato: una nave privata ha riportato dei naufraghi salvati in mare in Libia. Il caso di chiama Sdg contro Italia», spiega Giuffrè. Ma è la prima volta in cui si presenta un ricorso del genere contro tre stati.
E poi c’è il celebre Caso Hirsi: la Corte europea dei diritti umani, il 23 febbraio 2012, ha condannato lo Stato italiano per il modo in cui ha operato con navi della Marina militare il respingimento di un considerevole numero di profughi africani provenienti dalla Libia tra il 6 e il 7 maggio 2009.
L’Italia ha dovuto rivedere quelle politiche di respingimento diretto: le nuove politiche di esternalizzazione, in qualche modo, sono anche un po’ la conseguenza (sbagliata) di quella sentenza.
Ora si cerca di non avere contatto fisico in queste operazioni, per non avere giurisdizione. La nostra tesi — tra coordinamento, finanziamento, cooperazione con la Libia — è che la responsabilità invece ci sia, eccome.
«I rimpatri forzati e i respingimenti delegati verso la Libia, attuati grazie al sostegno politico e materiale alla Guardia costiera libica e al Direttorato per la lotta all’immigrazione clandestina (DCIM) — contro i quali vi sono accuse molto gravi di legami con i trafficanti di esseri umani e di coinvolgimento in gravi violazioni dei diritti umani come la tortura, il lavoro forzato e gli abusi sessuali — intrappolano i migranti in luoghi dove sono sottoposti a terribili abusi», dice Neil Hicks, Senior Advocacy Director del Cihrs. «È necessario che venga posta fine a queste pratiche».
(da Open)
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