SALVINI E LA PROFEZIA DI BOSSI
INASCOLTATO IL CONSIGLIO DEL FONDATORE DELLA LEGA
Nell’estate del 2019, subito dopo le elezioni europee, la Lega di Matteo Salvini sfiorava il 35%. Oggi deve accontentarsi del 7-8%, circa il 20% dei consensi alle Europee 2019, e meno del 50% di quelli alle Politiche del 2018. È verosimile che la percentuale attuale rappresenti lo “zoccolo duro” del voto leghista, e che sotto di essa il partito non possa scendere. Tanto più alla luce delle sue difficoltà attuali: come ha osservato Francesco Bei qualche giorno fa, le critiche dell’Europa alla manovra ruotano tutte intorno a cavalli di battaglia della Lega, dal fisco all’uso del contante, alla politica dei condoni.
Come è stato possibile un tale tracollo?
Una ragione ovvia è che, ai tempi del Papeete (agosto 2019), Salvini sbagliò clamorosamente i calcoli, ovvero non si rese conto che il Pd — grazie alla spregiudicatezza di Renzi — avrebbe potuto rimangiarsi l’impegno zingarettiano a non fare alleanze con i Cinque Stelle. Di lì un’emorragia di consensi, che Salvini aveva conquistato in virtù della sua posizione di vicepremier nel governo giallo-verde e della popolarità della politica dei porti chiusi.
In casa leghista la spiegazione che si preferisce invocare è un’altra: la perdita di consensi sarebbe dovuta alla generosità di Salvini, che — per puro senso di responsabilità — fece la scelta autolesionista di sostenere il governo Draghi, pagando un prezzo elevato in termini di popolarità.
Questa spiegazione fa comodo all’orgoglio della Lega, ma è incompatibile con i dati: il travaso di voti dalla Lega a Fratelli d’Italia è iniziato ben prima dell’ingresso nel governo Draghi, come ha dimostrato uno studio del prof. Paolo Natale.
Dunque, come sono andate le cose?
Una spiegazione alternativa la fornisce una lunga intervista a Repubblica che, del tutto inascoltato, Umberto Bossi rilasciò a Gad Lerner ben tre anni fa (inizio 2020), appena sei mesi dopo il passo falso del Papeete. Allora la Lega di Salvini veleggiava ancora sopra il 30%, seguita a grande distanza dal Pd (21%), dai Cinque Stelle (14%) e dal partito di Giorgia Meloni (12%). In breve, non era irragionevole, allora, pensare che, scontato il contraccolpo del Papeete e della nascita del governo giallo-rosso, la Lega di Salvini potesse conservare a lungo la posizione di primo partito italiano.
Ebbene, in quelle circostanze, ancora molto favorevoli a Salvini, Umberto Bossi preferiva lodare la saggezza di Stefano Bonaccini (fresco vincitore delle Regionali), che era stato «bravo ad agganciarsi per tempo al treno di Lombardia e Veneto con il progetto del regionalismo differenziato». E soprattutto avvertiva Salvini: «Altro che prima gli italiani. Per quello basta e avanza la destra nazionalista. Ora spero sia chiaro: se trasferisci la Lega al Sud, poi diventa più difficile chiedere il voto alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia». Nella medesima intervista si chiedeva: «La Lega fa ancora gli interessi del Nord, sì o no? Basta fare due conti: più della metà degli elettori italiani vive sopra il Po. Se perdiamo questi è finita».
E non è tutto. Nella parte finale dell’intervista, a Gad Lerner che gli chiedeva se fosse pensabile riaprire una discussione interna alla Lega, il vecchio leone rispondeva: «Guai se non succedesse. La base del Nord è in fermento. Bisogna che qualcuno trovi il coraggio di darle voce, perché altrimenti se ne andranno via in tanti». E aggiungeva: «Su di me possono contare».
Non so se la diagnosi di Bossi fosse corretta, né se le sue terapie — tornare a essere il partito del Nord, tenere aperto il dialogo con la sinistra — avrebbero impedito il declino della Lega, o almeno evitato la catastrofe elettorale del 25 settembre.
Quel che però mi pare difficilmente contestabile è che il consiglio di aprire una discussione interna fosse un consiglio saggio. Si può capire che Salvini, forse preoccupato per il residuo ascendente di Bossi sulla base leghista, abbia allora preferito ignorare il consiglio. Ma è molto più difficile comprendere la caparbietà con cui tuttora, a dispetto della debâcle elettorale, il leader della Lega osteggia l’emergere di un vero confronto interno. Può darsi che evitare di aprire una grande discussione sulla linea politica conservi a Salvini il controllo della sua creatura. Ma è lecito domandargli se, per questa via, sarà mai possibile recuperare il sostegno di quanti l’hanno abbandonata.
(da La Repubblica)
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