TRACCE, PEDINAMENTI E INTERCETTAZIONI INCHIODANO MOSCA
LE PROVE DEGLI 007 USA SUGLI ATTACCHI HACKER DI MOSCA
Il rapporto dell’intelligence americana contiene «prove materiali» sugli attacchi degli hacker russi e potrebbe anche aprire la strada a inchieste capaci di minacciare la stessa amministrazione Trump. Lo rivelano fonti vicine all’indagine.
Come nasce il rapporto?
Questi dossier vengono prodotti mettendo insieme tutte le informazioni raccolte dalle agenzie. Poi, ognuna di esse ha la facoltà di rivederlo e togliere ciò che ritiene debba restare segreto.
Così, si arriva alle poche pagine pubblicate, che inevitabilmente non contengono prove materiali, per non compromettere fonti e metodi.
La catena di comando per rivelarle è molto selettiva e in sostanza solo il presidente può pretendere di sapere tutto. Perfino i parlamentari delle Commissioni intelligence ricevono solo le informazioni che le agenzie ritengono strettamente necessarie.
Le prove materiali
Secondo fonti molto vicine all’inchiesta il linguaggio pubblico utilizzato nel rapporto significa che Cia, Fbi e Nsa hanno pezze d’appoggio molto concrete, per sostenere le loro accuse.
Non si tratta solo delle tracce lasciate dagli hacker nella rete, ma di messaggi o intercettazioni registrate degli agenti segreti russi, mentre discutono, ordinano e coordinano gli attacchi agli archivi digitali del Partito democratico e oltre.
In alcuni casi è probabile che le agenzie possiedano anche le foto degli stessi operativi di Mosca, mentre conducono le loro attività .
Dunque prove concrete e inoppugnabili, non semplici speculazioni. Il motivo per cui non verranno mai pubblicate è che comprometterebbero per sempre il lavoro futuro delle agenzie, un po’ come le rivelazioni di Snowden.
Le prossime inchieste
Le rivelazioni dell’intelligence sono imbarazzanti per il presidente eletto Trump, ma finora non vanno oltre questo livello politico.
La vera minaccia per lui sta nel fatto che potrebbero portare ad un’inchiesta più ampia, per verificare se qualcuno nella sua campagna aveva avuto contatti con gli agenti russi e aveva collaborato con loro negli attacchi.
Il punto di partenza per andare in questa direzione è il concreto sospetto che sia stato commesso un reato, come quando gli operativi di Nixon violarono gli uffici democratici nel complesso Watergate.
L’attacco agli archivi digitali del partito e della campagna di Hillary Clinton è un reato, ma per perseguirlo è necessario che qualche cittadino americano lo abbia commesso.
Se si trattasse di un’inchiesta normale, i «field officer» dell’Fbi avrebbero l’autorità per procedere, informando solo il loro superiore diretto.
In questo caso però si parla prima di un candidato presidenziale, e poi del nuovo capo della Casa Bianca, e quindi l’autorizzazione a procedere va chiesta al ministero della Giustizia. Una soglia molto alta, dunque, ma non impossibile da superare, come aveva dimostrato appunto il Watergate.
L’Fbi nei mesi scorsi ha già indagato su Carter Page, consigliere di Trump della prima ora, che ha lavorato a lungo con la Russia.
Nel frattempo la campagna di Donald ha preso le distanze da Page, e l’inchiesta non ha portato a risultati pubblici.
Stesso discorso per i rapporti che l’ex manager Paul Manafort, costretto alle dimissioni in agosto dopo la Convention di Cleveland, aveva avuto lavorando per Mosca in Ucraina.
L’Fbi ha verificato anche le accuse contro Roger Stone, altro sostenitore di Trump, che invece aveva rivendicato un rapporto diretto col fondatore di WikiLeakes Julian Assange. Per ora queste indagini non hanno prodotto risultati concreti, almeno pubblici, ma potrebbero essere ancora in corso o venire affiancate da altre.
Scontro con l’intelligence
Fonti interne alle agenzie sostengono che dentro l’Fbi non c’è una crisi di morale: i suoi uomini sono abituati alle critiche e capiscono gli interessi politici di Trump. Molti pensano che il direttore Comey abbia sbagliato a rendere pubblica l’inchiesta su Hillary, ma credono che sia stato costretto a farlo dall’errore commesso dalla ministra della Giustizia Lynch, quando aveva incontrato Bill Clinton all’aeroporto di Phoenix. Le polemiche l’avevano costretta a ricusarsi dal caso, lasciando così Comey senza copertura politica.
Per difendere se stesso e l’agenzia, quindi, il direttore si era sentito obbligato a rivelare l’inchiesta in corso, pensando che tanto Hillary avrebbe vinto comunque. Questo aveva aiutato Trump, ma l’indagine sugli hacker lo danneggia.
Se però ora decidesse di sacrificare Comey, che avrebbe ancora sei anni di mandato fino al 2023, l’Fbi si sentirebbe sotto attacco diretto e potrebbe reagire.
Paolo Mastrolilli
(da “La Stampa”)
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