TREMONTI: “UNA STUPIDATA QUELLA CASA, CI ANDAI PERCHE’ MI SENTIVO SPIATO”
IL MINISTRO TEMEVA DI ESSERE VITTIMA DI UNA GUERRA TRA BANDE DENTRO LA GUARDIA DI FINANZA: “IN CASERMA NON ERO TRANQUILLO: ERO CONTROLLATO E PEDINATO…COLPITO IL SISTEMA DI POTERE BERLUSCONIANO
“Lo riconosco. Ho fatto una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità . Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l’offerta di Milanese…”.
Finalmente, dopo lunghi giorni di imbarazzi e di silenzi, ecco la versione di Giulio Tremonti, al culmine di un assedio che lo vede all’angolo da un mese, e che rischia di farlo cadere da un giorno all’altro.
Non una banale giustificazione “tecnica”. Ma una brutale ricostruzione politica che, se autentica, tocca il cuore del sistema di potere berlusconiano.
Il “partito degli onesti” è un grumo di malaffari pubblici e di rancori privati.
Un ministro dell’Economia, che ha appena imposto agli italiani una stangata da 48 miliardi di euro, si può pagare l’affitto di casa in nero?
In quale altra democrazia occidentale sarebbe pensabile un simile cortocircuito etico e politico? Impensabile, insostenibile.
E infatti Tremonti è nell’occhio del ciclone.
Non solo le rivelazioni che si inseguono ogni giorno, dalle carte dell’inchiesta sulla P4 e sull’Enav.
Non solo le opposizioni che chiedono conto, rimpallando sul centrodestra una “questione morale” che si vorrebbe invece intestata al solo centrosinistra.
Ma anche il “fuoco amico” del Pdl, con Berlusconi che non risparmia i veleni, i suoi “volenterosi carnefici” che si prodigano a mescolarli e i giornali di famiglia che non smettono di inocularli nel circuito politico-mediatico.
Da settimane sulla graticola, Tremonti tenta ora di passare al contrattacco.
Di cose da chiarire ce ne sono tante.
Basta rileggere le ordinanze dei giudici e dei pm.
Tra il ministro e il deputato del Pdl “c’è uno stretto e attuale rapporto fiduciario che prescinde dal ruolo istituzionale rivestito da Milanese”: lo scrive il pm di Napoli Vincenzo Piscitelli.
“Assolutamente poco chiari i rapporti finanziari tra Tremonti e Milanese”: lo scrive il gip di Napoli, Amelia Primavera.
E dunque: perchè il ministro decise di andare ad abitare nella casa per la quale Milanese versava al Pio Sodalizio un canone d’affitto di 8.500 euro al mese?
E perchè Tremonti, su questo canone mensile, ha pagato una quota di 4 mila euro, in contanti?
“La cosa più giusta è quella che ha detto Bossi – osserva adesso il ministro, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre – ho fatto una stupidata, e di questo mi assumo la responsabilità di fronte agli italiani”.
È stata dunque una “leggerezza”, aver accettato la proposta di un suo collaboratore: usare il suo appartamento per le trasferte nella Capitale.
Tremonti rimanda al suo comunicato del 7 luglio, quando provò a troncare sul nascere l’ennesimo “ballo del mattone” che fa vacillare il Pdl, dallo scandalo Scajola in poi. “La mia unica abitazione è a Pavia. Mai avuto casa a Roma. Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l’offerta dell’onorevole Milanese. Da stasera, per ovvi motivi di opportunità , cambierò sistemazione”.
Questo diceva Tremonti, un mese fa. Ora ha cambiato sistemazione, appunto.
Ma resta sulla sua coscienza la consapevolezza di aver commesso, appunto, “una stupidata”.
Comunque grave. Gravissima per un ministro.
Nonostante questo, Tremonti non accetta di passare per un disonesto o un evasore fiscale.
“Chi parla di evasione fiscale è in malafede. Questa accusa non la posso accettare. Sono in grado di dimostrare in modo tecnicamente e legalmente indiscutibile l’assoluta regolarità del mio comportamento, e del mio contributo alle spese di quell’affitto”.
Non lo toccano le nuove carte uscite dall’inchiesta Enav, nè la ricostruzione dell’imprenditore Tommaso Di Lernia, secondo il quale l’affitto della casa non lo pagava Milanese, ma un altro imprenditore, Angelo Proietti, che in cambio otteneva sub-appalti.
“È una storia di cui non so nulla – commenta il ministro – non conosco quell’imprenditore indagato, non so nulla del contesto nel quale ha raccontato quei fatti”.
Ma la novità clamorosa, che emerge dallo sfogo di Tremonti sull’intera vicenda, non riguarda tanto le spiegazioni “formali” sulla quota d’affitto versata a Milanese, quanto piuttosto le ragioni “sostanziali” che lo spinsero ad accettare il “trasloco”.
Tra le righe, il ministro accenna qualcosa, proprio nel primo comunicato del 7 luglio. “Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l’offerta dell’onorevole Milanese…”.
Questo è il punto cruciale.
Per molti anni, e per l’intera legislatura 2001-2006 in cui è ministro, Tremonti dorme “in albergo o in caserma”.
Ma a un certo punto, dal febbraio 2009, decide di “accettare l’offerta dell’onorevole Milanese”. Cosa lo spinge a farlo?
Non il risparmio. Anzi, l’appartamento di Via Campo Marzio gli costa, mentre l’albergo lo paga il ministero, e la caserma la paga la Guardia di Finanza.
E allora? Perchè Tremonti decide di traslocare?
“La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato…”.
Eccolo, il “movente” che il ministro alla fine rende pubblico, dopo oltre un mese di tiro al bersaglio contro di lui.
Ecco la “bomba”, che Tremonti fa esplodere nel nucleo di uno scandalo che non è suo (o almeno non solo suo) ma semmai dell’intero sistema di potere berlusconiano. L’aveva fatto capire lui stesso, il 17 giugno scorso, nel colloquio con il pm Piscitelli che lo aveva ascoltato come testimone.
In quell’occasione Piscitelli fa sentire al ministro un’intercettazione telefonica (registrata nell’inchiesta sulla P4 di Bisignani) tra Berlusconi e il Capo di Stato Maggiore Michele Adinolfi.
Ed è allora che – come si legge nell’ordinanza – “il ministro riferisce dell’esistenza di “cordate” nella Guardia di Finanza, che si sono costituite in vista della nomina del prossimo Comandante Generale, precisa come alcuni rappresentanti di quel Corpo siano in stretto contatto con il presidente del Consiglio”.
Dunque, nella guerra per bande dentro la GdF, Tremonti sa da tempo di essere nel mirino di una “banda”.
In particolare, di quella che riferisce direttamente al premier.
Lo dice lui stesso a Berlusconi, in un colloquio di cui parla proprio il generale Adinolfi, a sua volta interrogato da Piscitelli il 21 giugno (quattro giorni dopo il ministro).
“Berlusconi – racconta il generale – mi mandò a chiamare, dicendomi che Tremonti gli aveva fatto una “strana battuta” allusiva, paventando che tramassi ai danni del ministro. Chiamò Tremonti davanti a me e lo rassicurò”.
Evidentemente quelle rassicurazioni non servono a nulla.
“Vittima” di questa guerra per bande fin dal 2009, quando cominciano i primi dissapori interni alla maggioranza e il Cavaliere comincia a sospettare degli “inciuci” tremontiani con la Lega e delle sue mire successorie dentro il Pdl, il ministro dell’Economia non si sente “tranquillo”.
Al contrario, si sente “spiato”.
E ora lo dice, apertamente: “In tutta franchezza, non me la sentivo più di tornare in caserma. Per questo, a un certo punto, ho accettato l’offerta di Milanese. L’ospitalità di un amico, presso un’abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura”.
Una scusa estrema, e tardiva, di un uomo disperato? Difficile giudicare.
Ma questa è la ricostruzione di Tremonti.
Se è vera, siamo al nocciolo duro del “metodo di governo” berlusconiano, che incrocia le P3 e le P4, la Struttura Delta e la “macchina del fango”, gli apparati dello Stato e il malaffare economico.
“Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo”, ha detto il ministro al Cavaliere, in un drammatico faccia a faccia dei primi di giugno, quando gli apparati del premier lo lavoravano ai fianchi, per convincerlo a dimettersi.
Forse siamo ancora dentro quel film.
Se è così, è più brutto e più serio della pur imperdonabile “stupidata” di Tremonti.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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