TRUMP, IL BOOMERANG DEI DAZI
LA GUERRA PIU’ STUPIDA DELLA STORIA: FARA’ MALE SIA AGLI STATI UNITI CHE AL RESTO DEL MONDO
I ricorsi storici lasciano il tempo che trovano. Eppure il ritorno di Trump alla Casa Bianca precipita l’intera umanità in un interregno gramsciano, dove il vecchio ordine è morto e quello nuovo non è ancora nato. L’Occidente è sospeso tra due guerre, ciascuna delle quali dipende dai colpi di teatro dello «sceriffo di Washington», come lo definisce il suo vice J. D. Vance in uno dei tanti deliri di onnipotenza ai quali ci stanno abituando tutti gli uomini del presidente.
C’è la guerra militare: siamo pronti a farla finire cedendo alle pretese dell’aggressore, paralizzati da una sindrome di Monaco che concede ai russi la licenza di attaccare Mattarella e impone a noi di chiamare “pace” la semplice sostituzione di Hitler con Putin e dei Sudeti con l’Ucraina.
C’è la guerra commerciale: non siamo pronti a combatterla, imprigionati dall’idea farlocca che l’imperatore americano non ricalcherà mai le orme di Nixon, capace di sconvolgere il mondo nel ’71 con l’addio agli accordi di Bretton Woods e il varo di una tassa al 10% sull’import.
La dottrina Trump sui «dazi reciproci» fa strage di tutte le illusioni. A partire da quella di Giorgia Meloni, convinta che il suo rapporto preferenziale con «l’amico Donald» avrebbe garantito all’Italia chissà quale favoritismo.
Non fa sconti a nessuno, il palazzinaro newyorkese pronto a fare di Gaza la Miami del Medio Oriente, di Kiev la Aspen dei Carpazi, di Bruxelles una dépendance di Mar-a-Lago. E di Roma, forse, il suo cortile di casa. Protestino pure, le anime perse del Vecchio continente: l’Europa è un fantasma e i destini del pianeta si decidono nello studio ovale, trasformato di volta in volta nel tempio dei figli di Dio o nel kindergarten dei figli di Musk.
Tutto si tiene nel palazzo del potere trumpiano: la parodia del sacro e l’apologia del profano. I biblici «portatori di pace» — ispirati dalla Bibbia e dal tycoon onnipotente — si guadagneranno il regno dei cieli servendo con gioia sia Dio che Mammona.
Le Trumpnomics è un suicidio per l’America. Sul fronte interno: meno imposte, bassi costi dell’energia, taglio dei tassi di interesse e lotta all’inflazione. Sul fronte internazionale: barriere doganali su tutte le merci importate, per fermare la delocalizzazione e rilanciare la reindustrializzazione.
America First mette insieme cose incoerenti tra loro. I Dottor Stranamore di Washington, nipotini deviati della Scuola di Chicago, dovrebbero sapere che se pensi di coprire con i dazi il minor gettito da taglio delle tasse fai esplodere il deficit, freni la crescita, acceleri l’inflazione e fai salire il costo del denaro.
Non serve l’Economist per capire che quella sui dazi è davvero la guerra più stupida della storia. Le barriere doganali rialzate del 10 e del 25% per Canada, Messico e Cina colpiranno settori come l’auto, l’alimentare, l’edilizia. Faranno lievitare i prezzi al consumo dell’1,2%, costeranno alle famiglie 100 dollari in più al mese, abbatteranno il Pil tra lo 0,24 e lo 0,32%. Con dazi sui prodotti cinesi fino al 100% il caro-prezzi costerebbe alle famiglie 2.600 dollari all’anno, e il deficit federale esploderebbe di 6-7 trilioni di dollari.
Trump, già immobiliarista semi-fallito, spaccia agli americani la solita verità alternativa: «Non è una guerra ai commerci, ma una guerra alla droga!». Al riparo dietro a questa balla, ottiene dai messicani 10 mila agenti in più alla frontiera Sud. Non serviranno a fermare i fiumi di fentanyl che la attraversano: in compenso, come dice Paul Krugman, i dazi sfasceranno un intero sistema produttivo integrato, visto che Messico e Canada sono i primi due mercati di sbocco dell’America, e viceversa.
La Trumpnomics è uno sconquasso per il mondo. La de-globalizzazione è un pericolo reale. Nel 2023 il pianeta ha generato un reddito complessivo di 105.435 miliardi di dollari, contro i 22.822 miliardi del 1990. Il commercio internazionale è passato dal 38,1% al 58% del Pil totale. La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze nei Paesi più sviluppati, ma ha tolto dalla povertà i Paesi sottosviluppati. Ha generato delocalizzazioni d’impresa e dumping salariale nelle aree più industrializzate, ma ha aumentato il reddito in quelle svantaggiate.
La globalizzazione, negli anni degli animal spirits di Reagan, ha consentito all’America di rafforzare la sua egemonia, a spese del keynesismo progressista e riformista. Il boom degli scambi e del disavanzo commerciale Usa ha sancito il primato globale del dollaro, ma ha favorito anche l’ingresso della Cina nel Wto.
Xi Jinping ha appena annunciato la sua risposta all’attacco americano: tariffe al 15% sull’import dagli Usa di gas liquido, carbone, petrolio, auto, macchine agricole, indagini su Google, Intel, Nvidia.
Oggi assistiamo a una paradossale eterogenesi dei fini: i totem economici delle vecchie destre liberiste, internazionaliste, mercatiste, vengono abbattuti dalle nuove destre sovraniste, nazionaliste, protezioniste.
La Trumpnomics è un danno per l’Europa. Lo sceriffo lo teorizza: «L’Unione ci ha sempre maltrattato sui commerci, adesso basta».
Nel 2023 gli Stati Uniti hanno assorbito il 15% dell’export dell’Eurozona, 450 miliardi di dollari in beni e servizi. Solo le macchine utensili valgono 120 miliardi, la farmaceutica ne vale 80, l’automobile 60. Dazi americani al 10% su tutte le esportazioni Ue ne abbatterebbero il volume del 20%. Per il Made in Europe sarebbe una perdita secca di 90 miliardi.
Gli effetti sulle catene di approvvigionamento sarebbero pesantissimi, su tutti i fronti: gli investimenti calerebbero tra l’1,5 e il 2,5%, il Prodotto lordo scenderebbe dello 0,3% e il numero dei posti di lavoro persi supererebbe le 250 mila unità.
E qui l’America patirebbe una seconda eterogenesi dei fini: punirebbe l’Europa, ma punirebbe ancora di più se stessa. Il minor deflusso di valuta sui beni importati dall’estero darebbe ancora più forza al dollaro, l’aumento dei prezzi innescato dai dazi obbligherebbe le autorità monetarie a tenere alti i tassi di interesse.
E qui, sullo sfondo, già si intuisce il prossimo scontro istituzionale, nel cuore di quella che fu la più grande democrazia del globo. Trump ha già emesso il suo diktat: «Il costo del denaro deve scendere: o ci pensa la Fed, o il problema lo risolveremo noi». Il governatore Powell gli ha risposto: «Decideremo in base ai dati dell’economia, come sempre».
E i dati dell’economia, per ora, dicono che a dicembre i prezzi sono già risaliti al 3%. Anche negli States dobbiamo aspettarci un attacco politico all’autonomia della Banca centrale: un classico delle autocrazie di ogni tempo, dalla Russia di Putin al Brasile di Bolsonaro, dalla Turchia di Erdogan all’Ungheria di Orbán.
In questa sua impetuosa cavalcata verso la nuova «età dell’oro» lo sceriffo è pronto a travolgere tutto e tutti. Compresa l’Italietta meloniana, autarchica e patetica nel suo tentativo di ingraziarsi la super potenza yankee.
È disarmante constatare che la premier — prima di fare dietrofront e schierarsi di nuovo a fianco di Von der Leyen — abbia pensato di poter spuntare a trattativa privata qualche sconticino sulle spese militari o sul parmigiano, in forza dei nostri 66,4 miliardi di export e dei nostri 39 miliardi di surplus commerciale.
Cosa contiamo noi europei per l’America lo spiegano le grottesche affermazioni di Vance, che a valle di un centinaio di ordini esecutivi che violano la Costituzione americana si dice preoccupato per l’Ue che «sta perdendo i suoi valori di libertà». Cosa contiamo noi italiani per Trump lo dimostra quel che disse a Gentiloni premier nel G7 di Taormina del 2017: «Cosa vendete agli americani, a parte le Ferrari?». Per lo Sceriffo siamo tutt’al più un mercatino, di lusso e di nicchia.
E allora, in questo tempo di guerre, delle due l’una: o la presidente del Consiglio capisce che la sua trincea è a Bruxelles, o si riduce al «felice vassallaggio» dal quale l’ha messa in guardia il presidente della Repubblica. In alternativa, c’è sempre il saloon.
(da La Repubblica)
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