TUTTI IN CORSA PER I VOTI DEI MODERATI
I MODERATI SONO OVUNQUE E ALLORA TUTTI I LEADER DIVENTANO RASSICURANTI
Il convitato di pietra della prossima campagna elettorale non è un’idea, ma uno stato d’animo: il malcontento.
Chi più riuscirà a rappresentarlo, o a sanarlo, sarà il vincitore, si dice. Come mai allora ovunque si guardi, a destra come a sinistra, tutte le forze politiche lanciano messaggi mirati soprattutto ad ottenere i consensi dell’area moderata?
In primissima fila ai blocchi di partenza, non a caso spicca la figura di Silvio Berlusconi, l’unico leader che ha attraversato (quasi) intatto il ventennio.
E’ nella sua versione proporzionale, ma fa da perno all’unica coalizione che può raggiungere una maggioranza. Silvio e il partito che guida da sempre sono entrambi ridotti nelle forze: Silvio ha venti anni in più, ha varcato gli ottanta, e Forza Italia quasi venti punti in meno rispetto ai fasti del passato.
Ma entrambi sono, in questa loro semplice resistenza all’usura, diventati la prova materiale (e psicologica) che non tutto cade, o si deteriora.
Questo atto di sopravvivenza , in tempi che hanno consumato ideologie, idee, partiti e reputazioni, vale da solo un programma politico. Curiosamente, infatti, il Silvio che oggi torna a raccogliere consensi indossa abiti totalmente diversi da quelli del primo Silvio.
La discesa in campo nel 1994 fu un atto di sfida, la promessa/minaccia di un Prometeo che voleva riscrivere il panorama della politica italiana — e ci riuscì, rompendo il panorama tardopost-guerra-fredda che durava in Italia da troppo tempo. Il sistema dell’epoca non lo amò molto — come poi si è visto.
Ma non è stato alla fine cancellato.
E oggi torna come la nemesi di sè stesso: Silvio oggi è leader rassicurante (per la sua stessa durata). Promette tranquillità , continuità , non si è fatto attrarre da sovranismi, da guerre contro l’Europa, ma nemmeno dalla favola del populismo che accontenta tutti gli altri leader a destra. Il re dei moderati, insomma.
E qui incontriamo Matteo Salvini, erede ma solo per via formale, di quella Lega con cui Silvio ha costruito in passato le sue fortune.
Passato il tempo in cui la sua attività politica sconfinava nel goliardismo, con provocazioni più atte ad attirare l’attenzione mediatica che a costruire un partito, Salvini guida una Lega che del passato ha perso persino il nome Nord con cui si identificava.
La Lega è sempre forte lì dove è nata e governa, il Veneto e la Lombardia, ma a Salvini è sempre stata stretta questa regionalissima identità — le patrie locali un po’ lo fanno soffocare, si ha l’impressione. Da quando ha mosso i suoi primi passi, molti di questi passi hanno calcato suolo e suggestioni estere: la Russia di Putin, l’identitarismo dei francesi lepenisti, l’ironia separatista inglese di Farage, e l’America di Trump.
Salvini ama i grandi temi, e ne ha trovato uno perfetto alla fine: il rifiuto dell’immigrazione come grande collettore di ogni suggestione identitaria, bianca, e indipendentista.
Ovviamente a Salvini è rimasto il gusto di scuotere, e dunque di spararle grosse — ma alla fin fine in questa vigilia elettorale le parole più gravi le ha già messe nell’armadio — di rompere con l’Europa non si parla molto, e di campagne contro i migranti non si sente tanto.
Del resto Salvini ha davanti una partita ben più grande: quella di declinare il malcontento in chiave tale da attirare anche una parte dei moderati di destra che sta oggi con Berlusconi. E questo sì che sarebbe un colpo: come va ripetendo da un po’, «se batto Silvio anche di un solo voto faccio il premier».
Il Principe dello «scontento» è per ora, comunque, il più giovane dei politici che calcherà la scena elettorale.
Luigi Di Maio è il candidato premier del movimento che ha per primo intercettato e aiutato a coagulare lo scontento in forza politica. Sono stati i pentastellati il maglio che ha spaccato la struttura (già esanime) della Seconda Repubblica.
Il loro programma appare dunque, fin da questo inizio, quello destinato al maggior successo. Le cifre dei poll gli danno numeri da primo partito. Alla lettura dei quali sorge tuttavia una domanda: ma perchè un movimento dedito ad aprire il sistema «come una scatoletta da tonno», presenta come proprio candidato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, giovane con abiti ed abitudini, nonchè idee molto istituzionali, o magari meglio ancora dire moderate?
Il punto di caduta per i pentastellati nella campagna elettorale è dunque, un po’ come per la Lega, il giusto equilibrio che saprà trovare fra scontento e moderazione: dopotutto, una cosa è aizzare con i «vaffa», altro è governare.
L’area moderata, chiamata riformista e moderna, è dichiaratamente anche il bersaglio di Matteo Renzi in questa che sarà la sua prima campagna elettorale nazionale: come ricorderete l’ex premier è riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi prima che in Parlamento. L’idea con cui si è presentato in politica è quintessenzialmente moderata — rompere con il passato ideologico della sinistra tradizionale. A questa idea ha sacrificato molto. Ha subito la sconfitta del referendum, ha perso Palazzo Chigi ed ha rotto (o ha subito la rottura, come preferite) un partito forte e di lunga tradizione quale il Pd.
Ora che c’è un nuovo Pd renziano, è l’ora per Matteo Renzi di mettere alla prova davvero la sua capacità di attrazione nonchè la sua capacità di formare il destino della nazione. Sullo stesso banco di prova anche per lui: l’area moderata.
Direttamente, prendendone i voti. O indirettamente, magari, come tutto lascia pensare dalle scelte del Pd, in una grande coalizione fra le forze di Berlusconi e quelle di Renzi. Che sarebbe poi la creazione di un grande fronte moderato al centro.
Le forze radicali sono invece quasi tutte raccolte intorno a nuclei minori. Liberi e Uguali, movimento dei fuoriusciti dal Pd non pare goda al momento di grandi favori elettorali. In ogni caso, la nuova formazione ha scelto come guida un ex magistrato, una figura superistituzionale come l’ex presidente del Senato Grasso.
Cos’è questa scelta se non una forma di rassicurazione contro gli strappi per chi vota a sinistra?
Moderati ovunque, insomma. Sotto la coltre pesante di scontento, appare la richiesta di non portare il Paese a sbattere.
Ma se questa è la domanda segreta delle urne, va a finire che vero vantaggio nella campagna elettorale lo godrà il governo Gentiloni che ha chiuso le Camere ma non si è dimesso, e che, secondo molti auspici, potrebbe essere pronto a continuare anche dopo il voto. Dopotutto, è il governo che finora, poll alla mano, pare abbia più rassicurato il Paese.
(da “La Stampa“)
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