WEAH, L’ULTIMO DRIBBLING VINCENTE: LA LIBERIA HA UN NUOVO PRESIDENTE BOMBER
PER L’EX ATTACCANTE DEL MILAN SI ATTENDE SOLO LA PROCLAMAZIONE
Da oggi George Weah, l’ex stella del Milan degli anni Novanta, non guarderà più a quel Pallone d’oro vinto nel 1995 (unico africano ndr), come il più grande successo della sua vita.
La presidenza della Liberia, il Paese dove è nato e da dove ha spiccato il volo verso l’Europa da ragazzo di strada, vale molto di più.
E al terzo tentativo è ormai prossimo ad ottenerla, essendo nettamente in vantaggio nei conteggi anche nel ballottaggio.
A 51 anni, «King George», come era soprannominato quando seminava il panico tra i difensori avversari di mezza Serie A, è prossimo ad un traguardo a cui non aveva mai rinunciato nonostante due brucianti sconfitte contro Ellen Johnson Sirleaf, presidente uscente e Premio Nobel per la Pace nel 2011.
Dodici anni fa «The Analyst», uno dei più diffusi quotidiani in Liberia, a pochi giorni dal voto titolava sulla sua prima pagina: «Qualification vs Popularity (Preparazione vs Popolarità )».
Lui, che non era neanche riuscito a finire il liceo per seguire la carriera da calciatore dopo la chiamata di Arsene Wenger (attuale allenatore dell’Arsenal) al Monaco, incarnava la seconda: la popolarità .
Ma allora, in un Paese uscito da più di dieci anni di guerra civile con la confinante Sierra Leone e 250mila morti interrati non bastò e vinse la Sirleaf, meno popolare ma laureata ad Harvard e appoggiata da tutte le istituzioni internazionali.
Questa volta, invece, il ballottaggio non ha sta dando scampo al suo sfidante, Joseph Boakai, l’attuale vice-presidente e braccio destro della Sirleaf che, tuttavia, in campagna elettorale non lo ha mai sostenuto in modo netto.
La vita di Weah potrebbe essere divisa in un racconto epico composto in tre atti. L’inizio: nella contea di Grand Kru, una delle più povere del Paese nel centro della Liberia.
I genitori non erano in grado di prendersi cura di lui e lo lasciarono ai nonni che vivevano a Clara Town, uno dei peggiori slum di Monrovia, la capitale della Liberia.
Al contrario dei suoi coetanei sfoga la sua rabbia sui campetti da calcio e ad emergere ci mette poco. Dalla modesta lega liberiana passa in Camerun fino a Milano via Francia.
Qui si apre il secondo capitolo della sua vita fatto di successi e milioni in tutta Europa. Il ritiro nel 2002, gli anni in America, la sua grande passione dopo l’Italia, dove investe le sue fortune in immobili, ma soprattutto in istruzione, laureandosi in Gestione d’impresa alla DeVry University in Florida. Poi il ritorno in patria e l’inizio del grande sogno ormai prossimo ad essere coronato: la presidenza.
Come ambasciatore Unicef ha viaggiato la Liberia intera con un pallone in mano per convincere gli ex bambini-soldato a reintegrarsi in società . Certo i passi non erano più quelli della «pantera nera» di una volta, ma numeri ed oratoria lo hanno trasformato in un eroe nazionale da seguire ed emulare. Gli anni delle sconfitte politiche, dove è riuscito solo a vincere un seggio da senatore, sono serviti a Weah per capire che la politica non è come un campo da calcio e che le alleanze contano più che i compagni di squadra.
Così al terzo tentativo ha deciso di giocare duro scegliendo al suo fianco Jewel Howard Taylor, la moglie di Charles Taylor, ex Presidente della Liberia, incriminato a 50 anni di reclusione dalla Corte penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile degli anni Novanta.
Una scelta che ha spinto i suoi detrattori ad accusarlo di essere la marionetta di un «sanguinario» pur di diventare presidente. Accusa rinforzata dopo che all’inizio di quest’anno, Taylor, dal carcere di Durham in Inghilterra, dove sta scontando la sua condanna, in video-conferenza è apparso a un comizio politico sostenendo la candidatura di Weah e della moglie. Un’alleanza, secondo gli analisti, decisiva per assicurare la vittoria a «King George».
Terminati i festeggiamenti il compito che spetta a Weah è ben più difficile di vincere un campionato. Il piccolo Paese dell’Africa occidentale, stabilizzato dalla presidenza Sirleaf, sta ancora scontando economicamente l’epidemia di Ebola che ha causato oltre 4800 morti tra il 2014 ed il 2015.
(da “La Stampa”)
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